Oggi vi parlerò della scuola italiana che, se paragonata a un albero, potrebbe essere un salice piangente: con le sue fronde  chine verso il basso, a mugugnare per tutto quel che non va.

Ma andiamo con ordine.

Ieri è stato il mio primo… “Primo giorno di scuola” nelle vesti di insegnante.

Già, anche se sono una Prof da diversi anni, non avevo mai preso parte all’incipit dell’anno scolastico.

Non avevo mai presenziato all’apertura settembrina delle attività didattiche, né tanto meno al fatidico “primo giorno di scuola”. Quello in cui si rompe il ghiaccio e si respira un’aria nuova, percepibile soprattutto negli sguardi curiosi e un po’ timidi di chi inizia un nuovo percorso scolastico e si guarda intorno tra le aule e i corridoi di quello che diventerà uno scenario abituale per i prossimi cinque anni.

Fino all’anno scorso non avevo mai respirato la particolare aura di questa giornata: ho peregrinato da un istituto all’altro, a volte giocando in casa, altre sconfinando nell’hinterland napoletano o nelle piccole isole, senza mai inaugurare l’inizio dell’anno scolastico.

Eh sì, l’albero-scuola, ovvero il salice, piange.

Piange perché il sistema organizzativo consente che in questi giorni un gran numero di colleghi, i cosiddetti “precari”,  non possano prendere parte all’avvio delle attività didattiche. Se ne stanno a casa, magari a consultare il sito del Provveditorato agli Studi per verificare quando e dove saranno convocati.

Ricordo di anni in cui ho preso servizio a ottobre inoltrato e, per giunta, in scuole dove era stata adottata la scansione in trimestre e pentamestre: una corsa contro il tempo per portare avanti programmi e verifiche. 

Poi, c’era quella fastidiosa sensazione di sentirsi sempre di passaggio, con la conseguenza di non farsi mai coinvolgere troppo in progetti e attività, così come nei rapporti umani.

Ecco perché evitavo di affezionarmi troppo alle classi.

Ero di passaggio.

Non è stato facile vivere la “missione” dell’insegnamento con queste modalità.

Il salice piange.

Piange perché in questi anni a volte mi è capitato di fare una gaffe con alcuni colleghi. Festeggiavano la loro immissione in ruolo con bibite e pasticcini, ma io mi congratulavo con loro pensando fossero andati in pensione. Con tanto di suggerimenti su come impiegare il tempo libero.

Così, mi ero rassegnata anche io a chissà quanti altri anni di precariato.

Mi ero predisposta al peggio, finché anche per me è arrivato niente poco di meno che il fatidico ruolo e, per giunta, in un istituto vicino casa. 

Il salice piange, perché la scuola italiana andrebbe riorganizzata e migliorata per una molteplicità di aspetti;  ma, consentitemi, dopo diversi anni in balia di incertezze, oggi  sorrido.

Sorrido tra le quattro mura delll’istituto in cui mai avrei sperato di poter approdare come titolare e di cui mi sento finalmente componente al 100%, pronta a prenderne parte attiva con idee e progetti.

E sorridevo ieri, dietro la cattedra, quando ho fatto la conoscenza di una classe e ho inaugurato con loro il mio incipit in questo istituto, con la soddisfazione di poter vivere questi studenti per tutto il quinquennio e di accompagnarli così in un cammino di crescita e maturazione, che non è solo legato ai saperi, ma a tanto altro.

È un percorso fondamentale per forgiare persone che un domani potranno rapportarsi al meglio con la società, per contribuire a migliorarla.

A chi di competenza, basterebbe pensare  a queste motivazioni per comprendere l’impellente necessità di ricostruire la scuola italiana su nuove e più efficienti basi operative; su basi che diano maggiore stabilità ai docenti e, di riflesso, agli alunni. 

Magari evitando anche di gravare sul personale con continui adempimenti burocratici e aggiornamenti infruttuosi, dispersivi di preziose energie da poter investire, invece, nell’insegnamento.

Per far sì che parlando della scuola italiana si possa evitare il richiamo a un salice piangente, usando invece metafore di alberi con rami ben protesi verso l’alto.

Concludo con l’augurio per tutti di un sereno anno scolastico: per noi docenti e per tutto il personale impiegato negli istituti; per i genitori che devono supportare e vigilare l’iter dei propri figli e soprattutto per loro, che quando sono dietro i banchi, diventano un po’ anche figli nostri.

M. C.