“Se son matto, pazienza!

Preferisco la mia follia alla saggezza degli altri.”

(Vincent Van Gogh)

 

Oggi il nome di Vincent Van Gogh figura tra i più noti del panorama artistico moderno, le sue opere sono quotate a cifre esorbitanti e il suo linguaggio, vibrante di energia, ha avvicinato il pubblico a una poetica artistica segnata da un’intensa sensibilità emotiva. Eppure, la sua breve carriera è costellata dagli insuccessi e da un forte senso di inadeguatezza, che possono considerarsi alla base del suo temperamento inquieto e tormentato. 

Van Gogh nasce in Olanda da una famiglia agiata. Figlio di un pastore protestante, dopo aver intrapreso un percorso come mercante d’arte, segue le orme paterne e diventa predicatore laico, impegnandosi con fervore per i bisogni della comunità che gli viene affidata.  All’età di ventisette anni, non soddisfatto lascia questo impiego.  Decide quindi di riversare il suo impegno per migliorare il mondo dedicandosi alla pittura, a cui si era già avvicinato tramite la precedente esperienza lavorativa. Questa nuova scelta è subito vissuta come missione di vita. 

Sì forma da autodidatta, guardando inizialmente agli esempi di Rembrandt e del Seicento olandese, ma anche di Francois Millet e della Scuola di Barbizon, da cui sviluppa una notevole sensibilità per la luce e per il colore. 

Risale al 1885 uno dei suoi dipinti più noti di questa prima fase: “Mangiatori di patate”. 

Van Gogh pone qui l’attenzione sulla povertà delle classi sociali olandesi meno abbienti, svelando tutta l’umiltà e la semplicità di una famiglia intenta a consumare un pasto misero. I volti dei personaggi sono fortemente espressivi, con una valenza quasi caricaturale, mentre l’atmosfera cupa è mitigata dai giochi luministici e dall’utilizzo terroso del colore. Nessun intento idealizzante, solo la necessità di raccontare le difficoltà quotidiane di uomini temprati dalla fatica. 

Nel 1886 Vincent raggiunge il fratello minore Theo(*) a Parigi. Nella capitale francese può perfezionare i suoi studi pittorici, ricevendo notevoli stimoli dalle opere impressioniste e giapponesi e dall’incontro con Paul Gauguin.

Van Gogh matura così un linguaggio segnato da un contorno marcato e da una spiccata vivacità cromatica, con  un’impostazione tecnica di matrice divisionista. Ne deriva una pittura caratterizzata da rapidi tocchi di colore puro dall’andamento vorticoso, dove il tratto sinuoso sprigiona tutta l’intensità emotiva dell’artista. 

L’infanzia solitaria, il sentirsi rifiutato dalle donne di cui s’innamora e la mancata gratificazione professionale concorrono a creargli stati di profondo malessere, con conseguenti disturbi mentali.

Alle fasi depressive Van Gogh alterna tuttavia anche momenti di serenità e di speranza, in cui i soggetti dei suoi quadri emanano più serenità. In entrambe le fasi, la sua tavolozza si tinge di colori accesi, in particolare del colore solare per eccellenza, il giallo, per il quale sviluppa una predilezione quasi ossessiva, che pare possa essere imputabile al suo abuso di assenzio, distillato ad alta gradazione alcolica, capace di causare la xantopsia, una disfunzione percettiva che mostra ogni cosa più gialla. Così dipinge girasoli e campi di grano, camere e case gialle, nella convinzione che questo colore possa portargli un po’ di felicità.  

In “La casa gialla” (1888) dipinge la sua abitazione ad Arles, cittadina della Francia meridionale, dove si trasferisce dopo pochi mesi dall’arrivo a Parigi, con il sogno di fondarvi una comunità fatta di artisti che vivono e lavorano insieme, uniti dagli stessi intenti. Una sorta di utopia, un disegno armonico di arte e vita, che però non riesce a realizzare.

L’opera, inizialmente intitolata “La strada”, è una veduta dominata da uno scorcio di Arles, dove a un incrocio stradale spiccano alcune palazzine, tra cui quella gialla con le persiane verdi, in cui Van Gogh ha affittato due stanze. Il tratto pittorico è sommario, ma concitato ed espressivo e l’immagine appare segnata da una studiata regia compositiva. 

Risulta invece volutamente distorta l’impostazione prospettica della sua stanza nelle tre versioni di “Camera da letto”, realizzate tra il 1888 e il 1889 e pervase da un’intensa energia interna, frutto dell’impetuosa sensibilità visionaria di Vincent. Il letto e gli altri arredi sembrano venir meno alla loro immobilità, inseriti piuttosto nella concitata instabilità di un equilibrio precario, scaturito dall’uso arbitrario della prospettiva.

Van Gogh si dedica a diversi generi pittorici: paesaggi, nature morte, ritratti e, soprattutto, autoritratti. Questi ultimi, oltre all’evoluzione della cifra stilistica, possono fornirci i travagliati stati d’animo e i tormenti vissuti dall’artista.

E vien da chiedersi, nonostante i disturbi psichici da cui era affetto, come sia possibile una tale lucidità descrittiva, capace di indagare a fondo la propria psiche, esprimendone tutta la complessità attraverso uno sguardo ora teso, ora allucinato, perso nel delirio della sua inquietudine.  

In particolare, in “Autoritratto con orecchio bendato” (1889) l’artista racconta della sua autolesione all’orecchio destro, scaturita da una violenta lite con il pittore Paul Gauguin. I due, legati da un rapporto di amicizia, convivono per un breve periodo nella casa gialla per dar vita al sogno di creare una comunità di artisti. I caratteri divergenti, i contrasti nel lavoro e gli eccessi dei turbamenti mentali di Vincent spiegano l’impossibilità di portare avanti questo sogno. Dopo l’ennesimo litigio, l’artista olandese si infligge un’autopunizione: si mutila il lobo dell’orecchio per poi farlo recapitare a Gauguin. E´ la fine definitiva del loro precario sodalizio umano e artistico. 

Lo stato mentale di Van Gogh si aggrava sempre più, ma la malattia e i vari ricoveri in strutture sanitarie non fermano la sua foga creativa. Egli dipinge con ritmi quasi febbrili, realizzando un gran numero di opere in tempi brevissimi. Campi di grano, paesaggi notturni, vedute con cipressi, iris e girasoli: in ogni quadro il vigoroso tratto pittorico anima il soggetto di un’intensa vitalità espressiva, al punto da far sì che negli anni successivi sarà considerato un precursore dell’avanguardia  francese dell’Espressionismo. 

Nella celebre “Notte stellata” (1889) un cielo notturno, rischiarato da vibranti astri e da una grande luna splendente, rivela tutta la sensibilità poetica dell’artista: quella che raffigura è un’immensità blu attraversata da moti spiraliformi; un cielo pulsante di vita che, misterioso e suggestivo, sovrasta i tetti di un villaggio sopito nella quiete della notte, mentre a sinistra un monumentale cipresso si erge sconfinando verso l’alto con un sinuoso moto ascensionale. 

Il motivo del cielo blu torna anche nel suo ultimo dipinto, “Campo di grano con volo di corvi” (1890), testamento spirituale di Van Gogh, pura espressione del suo tormento interiore. 

Stavolta si tratta di un cielo plumbeo, gravido di pioggia, dove vola uno stormo di corvi, presagio di morte. In primo piano un campo di grano si estende verso questo orizzonte cupo, mentre un sentiero di dirama in più direzioni, come a indicare l’insicurezza che attanaglia chi non sa quale strada intraprendere.

Le pennellate riflettono il malessere esistenziale di Vincent, sono violente frustate di colore, un delirio di nevrotici filamenti sinuosi, densi di sofferenza e agitazione. 

Van Gogh dipinge questa tela poco prima di morire. Alla versione tramandata del suicidio con arma da fuoco, si oppongono alcuni studi più recenti, interessati all’attendibilità della ricostruzione degli eventi.

In ogni caso, nel 1890 si conclude la travagliata esistenza di un pittore capace di riversare tutto sé stesso in un dipinto: le speranze e la disperazione, la malinconia e la rabbia, la serenità e la follia. 

Il suo angosciato percorso di vita si riversa in una fervida creatività artistica, che apre nuove stimolanti vie all’arte dei decenni successivi. Un linguaggio così forte e innovativo, il suo, da non essere capito appieno dai contemporanei. Un’arte intensa e feconda, preziosa eredità  di un uomo segnato da un turbinio di sentimenti contrastanti e dal gran desiderio di trovare un posto nel mondo, di avere un riconoscimento, di essere in qualche modo compreso.  

M. Castellano

IL RAPPORTO EPISTOLARE TRA VINCENT E THEO VAN GOGH

“In questi giorni, trasferendo i miei mobili, imballando le tele che spedirò, ero triste. Ma mi sembrava soprattutto triste il fatto che tutto questo mi fosse stato donato dalla tua amicizia fraterna e che tutti questi anni solo grazie a questa tua amicizia io abbia potuto sostenermi: mi è difficile esprimerti quello che sentivo. La bontà che tu hai avuto per me non è perduta, poiché tu l’hai avuta, questa resta, anche se i risultati materiali fossero nulli, questa resta anche a maggior ragione.”

Così scrive Vincent Van Gogh al fratello Theo nell’aprile del 1889. 

Theo rappresenta un fondamentale punto di riferimento per l’artista, non solo a livello affettivo ma, in quanto mercante d’arte, anche di natura professionale. Theo prende a cuore le disperate condizioni del fratello e lo accoglie in Francia cercando in tutti i modi di alleviargli le sofferenze e, in quanto mercante d’arte, di procurargli commissioni e vendite. Tra i due si consolida un profondo legame, narrato da una fitta corrispondenza epistolare. 

Le lettere di Vincent sono come delle pagine di un diario, ne rivelano tutta la complessa e multiforme interiorità, ricca di colori diversi, come nei suoi quadri. In esse si percepisce inoltre la profonda gratitudine per Theo, da cui riceve un costante supporto morale ed economico, ma in molti passi emerge anche il  rammarico di non riuscire ad avere un’indipendenza, dovendo così gravare sulle spalle del proprio fratello minore.

Fino alla fine dei suoi giorni Vincent riceve l’affetto incondizionato di Theo, forse l’unico ad aver realmente compreso la sua profonda sensibilità emotiva.