Piero della Francesca nasce a Borgo San Sepolcro, nei pressi di Arezzo, tra il 1415 e il 1420.
Non sappiamo molto delle origini e della sua primissima formazione, ma ci risulta a Firenze nel 1439 come collaboratore di Domenico Veneziano e, poco dopo il 1440, si allontana dalla città per non farvi più ritorno.
Dall’esperienza con il Veneziano, il giovane trae una spiccata predilezione per le tonalità chiare e luminose, mentre dal prolifico ambiente fiorentino ricava quei fondamentali apporti legati ai nuovi modi rinascimentali.
Lasciata Firenze, senza mancare di far spesso ritorno al natio Borgo San Sepolcro, l’artista soggiorna in diversi centri italiani, quali Rimini, Ferrara, Roma e, in particolare, Urbino.
A Rimini si rivela fondamentale l’incontro con Leon Battista Alberti, il cui rigoroso linguaggio architettonico non mancherà di ispirarlo; a Ferrara la conoscenza del fiammingo Rogier van der Weyden gli consente di approfondire lo studio sulla pittura delle Fiandre, mentre a Roma è significativo il confronto con Antonello da Messina. A Urbino, dove trascorre gli ultimi anni di vita, trova un ambiente culturale vivace e prolifico, in cui porta a maturazione i frutti del suo sapiente linguaggio artistico.
In questo variegato percorso Piero ha modo di divulgare il grandioso patrimonio artistico fiorentino, rielaborato e rinnovato attraverso le sue personali inclinazioni culturali, orientate in particolare alla razionalità degli studi geometrici.
Partendo dalle conoscenze brunelleschiane, l’artista approda a un’impostazione della realtà intesa come rigorosa griglia prospettica in cui inserire figure essenziali, segnate da una limpida purezza geometrica.
L’universo rappresentato è dunque in perenne equilibrio: ogni elemento è governato dall’armonia, a dimostrazione della capacità dell’uomo di comprendere il creato attraverso i teoremi matematici.
Pertanto, la pittura pierfrancescana si manifesta nella perfezione di forme schematiche e assolute, statiche e immutabili.
Il credo scientifico di Piero costituisce una componente fondamentale del suo linguaggio pittorico, segnato da un estrema precisione metodologica e da una piena padronanza esecutiva.
Egli svela questi significativi apporti non solo nei dipinti, ma anche in diversi scritti di matematica e geometria prospettica, atti a fornire un’attenta valutazione delle proporzioni e della resa spaziale.
Tra i suoi trattati – tutti corredati da un’elegante grafia e da precise illustrazioni tecniche realizzate a penna – ricordo il De prospectiva pingendi, di cui esistono copie sia in latino che in volgare. Scritto nella corte di Urbino, quando l’artista è ormai anziano e prossimo alla cecità, è diviso in tre libri ed espone i procedimenti di riduzione prospettica applicabili in pittura, con la fiducia nella verità della scienza prospettica.
La rapida circolazione dei trattati di Piero, così come la diffusione dei suoi dipinti e i frequenti spostamenti che egli effettua, costituiscono un fondamentale mezzo di divulgazione delle conquiste fiorentine nelle altre regioni italiane.
Gli esordi dell’artista sono legati al suo luogo natio, dove nel 1445 gli viene commissionato un polittico dalla locale Confraternita della Misericordia.
La monumentale opera, la cui realizzazione si protrae fino al 1462, nonostante il fondo aureo di ascendenza ancora trecentesca, presenta un’aggiornata impostazione spaziale, nutrita da uno studiato rigore geometrico, dove i personaggi, definiti da una solida plasticità, sono caratterizzati da un’austera dignità e da un atteggiamento meditativo e distaccato.
Si osservi l’assorta solennità della Vergine della Misericordia, stagliata al centro della composizione, come un’imponente architettura, per offrire protezione ai fedeli riparandoli sotto il suo ampio manto.
Intorno al 1445, quando avvia l’esecuzione del polittico, Piero riceve dai monaci camaldolesi di San Sepolcro anche l’incarico di realizzare una tavola raffigurante il Battesimo di Cristo(*), indiscusso capolavoro giovanile, già caratterizzato da una solenne visione geometrica e da una pienezza della capacità prospettica, che saranno costanti elementi distintivi del suo linguaggio pittorico.
Piero prosegue la sua feconda carriera in giro per l’Italia, avendo cura di far spesso ritorno a Borgo San Sepolcro, sia per procedere con la lavorazione del Polittico della Misericordia, sia per adempiere a nuovi incarichi.
In particolare, dal 1452 al 1466, è attivo nella vicina Arezzo, nel coro della Chiesa di San Francesco, dove esegue un grandioso ciclo di affreschi con le Storie della Vera Croce, incentrato sul tema dell’adorazione della croce del Cristo, così caro all’ordine francescano, detentore della chiesa.
Le scene narrate, pervase da un elegante equilibrio classico, sono costruite con gran maestria compositiva e si avvalgono di un nutrito riferimento al linguaggio masaccesco, come rivelano le salde volumetrie e i potenti effetti chiaroscurali.
Leggende e vicende storiche del legno su cui è stato crocifisso il Salvatore s’intrecciano in studiate sequenze pittoriche che risalgono al tempo della morte di Adamo e del ramoscello dell’albero della vita donato dall’Arcangelo Michele, fino ad arrivare al VII secolo, quando la croce del martirio di Cristo, ricavata dal legno di quell’albero, viene restituita a Gerusalemme.
L’alone leggendario delle origini confluisce nella storia con Costantino, il primo imperatore cristiano, che nel 312 combatte la celebre battaglia di Ponte Milvio e, favorito dall’utilizzo del simbolo della croce come insegna, ha la meglio sul suo rivale Massenzio.
Nella scena de Il sogno di Costantino, ambientata alle prime luci dell’alba, l’imperatore è raffigurato mentre riposa nel suo accampamento, alla vigilia dello scontro con Massenzio per il dominio del potere su Roma.
Nella suggestiva oscurità le prime luminiscenze del nuovo giorno annunciano la presenza mistica dell’angelo, in alto a sinistra. La divina creatura appare in sogno a Costantino per rivelare che la Croce del Cristo gli consentirà la vittoria sul nemico. La solennità di questo momento è evidenziata dall’uso magistrale della luce, che con i suoi intensi bagliori s’impone sull’ombra della notte, così come la fede cristiana sovrasta le tenebre del paganesimo.
Durante l’esecuzione del ciclo aretino, l’artista si dedica anche alla Flagellazione, un olio e tempera su tavola che si pone tra le opere più enigmatiche del secondo Quattrocento.
Realizzato verosimilmente intorno al 1460, il piccolo dipinto è articolato in due scene scandite da una lucida scenografia prospettica. Sullo sfondo, in un portico classicheggiante, si consuma il momento drammatico della flagellazione del Cristo, immortalato nella ieratica sospensione temporale pierfrancescana, che qui raggiunge uno dei suoi più alti vertici.
Alla destra del dipinto, in primo piano, appaiono invece tre illustri personaggi, impegnati in una meditata conversazione, anch’essi avvolti nella fermezza di un tempo destinato all’immutabilità.
Riguardo l’identità dei tre uomini, negli anni si sono susseguite svariate ipotesi, ma tuttoggi non si è definita un’interpretazione certa.
In ogni caso, a prescindere dal suo significato iconografico(*), il dipinto testimonia un’ennesima prova della gran maestria prospettica di Piero della Francesca, qui proposta con un’estrema precisione matematica, al punto da restituire uno spazio realmente misurabile, con le esatte distanze tra le figure e le quinte architettoniche.
Si noti la chiara unicità del punto di fuga, evidenziato dalle partizioni geometriche delle pavimentazioni, a cui fa eco la copertura cassettonata che sormonta il portico.
Anche se mancano attestazioni, tenendo conto dell’attribuzione cronologica e delle ipotesi ricostruttive avanzate sui tre uomini in primo piano, la Flagellazione è riferibile alla permanenza di Piero presso la vivace corte di Urbino, dove oggi è conservata, negli spazi espositivi della Galleria Nazionale delle Marche.
L’opera non è menzionata negli archivi del Palazzo Ducale della città, pertanto si ipotizza possa essere stata commissionata da un privato per ragioni non note.
Nella corte urbinate, fecondo centro culturale con significative presenze di intellettuali, letterati e matematici, l’artista trova un ambiente a lui congeniale, in cui raggiunge una più matura sintesi tra la razionalizzazione spaziale di matrice fiorentina e la sensibilità per gli effetti luministici e cromatici dovuti alla conoscenza della pittura fiamminga.
Piero della Francesca opera al servizio del duca Federico da Montefeltro, signore della città, e per lui realizza induscussi capolavori, quali la celebre Sacra conversazione(*), realizzata tra il 1472 e il 1474 e ; il dittico dipinto sempre tra il 1472 e il 1474 con i due ritratti del duca e di sua moglie Battista Sforza, effigiati di profilo dinanzi all’ameno paesaggio collinare del Montefeltro, nelle Marche; la Madonna di Senigallia, riferibile al decennio 1475-85, una delle ultime opere del maestro, segnata da una piena adesione ai modi fiamminghi, come rivelano la viva brillantezza dei colori, la raffinata modulazione della luce e l’accurata resa dei particolari.
A questi orientamenti nordici s’innesta poi la solida impostazione formale di ascendenza fiorentina, in una compiuta e mirabile sintesi espressiva, che rappresenta una delle più alte eredità artistiche del secondo Quattrocento italiano, di rilevanza fondamentale per la maturazione degli sviluppi artistici dei decenni successivi.
Piero della Francesca si spegne nella sua casa di Borgo Sansepolcro, il 12 ottobre 1492, nel giorno in cui Cristoforo Colombo sbarca in America.
Mariaelena Castellano
DENTRO L'OPERA
BATTESIMO DI CRISTO (1445 ca.) – Londra, National Gallery
Piero della Francesca imposta quest’opera secondo precisi rapporti matematici, come rivelano anche le dimensioni della tavola, dove due coppie di quadrati sovrapposti ne formano la parte inferiore, conclusa in alto da una lunetta, il cui raggio è uguale al lato dei quadrati. Nel centro di questa semicirconferenza è raffigurata la colomba bianca simboleggiante lo Spirito Santo, fulcro visivo e ideologico della composizione.
Lo Spirito divino rigenera dal peccato rivelando la divinità del Figlio di Dio ed è dunque lungo il suo asse, segnato da luminose striature dorate, che trovano posto la scodella del Battista e la candida figura del Cristo che, come una colonna, divide la scena a metà.
La solidità del corpo del Redentore è replicata a sinistra nel fusto di un albero, che compone un’inedita quinta prospettica, dove tre angeli assistono alla scena con un raffinato distacco, caratteristico dell’astrazione geometrica operata dall’artista.
Le tre figure angeliche si tengono per mano, come a indicare un ideale di concordia, a cui sembra far eco la presenza sullo sfondo dei personaggi vestiti all’orientale, un probabile riferimento ai tentativi di riavvicinare la chiesa ortodossa e quella latina, in linea con quanto auspicato dal Concilio di Firenze del 1439.
Del resto, l’abate dei committenti monaci camaldolesi, l’umanista Ambrogio Traversàri, è un appassionato sostenitore della conciliazione delle due fedi, in contrasto tra loro dal 1054.
Il Battesimo è il sacramento della rinascita e Piero della Francesca lo celebra attraverso una rigogliosa natura primaverile e un cielo terso riflessi nella limpidezza del rivo d’acqua. Nella purezza di questo paesaggio sereno si scorge Borgo San Sepolcro: le acque palestinesi del Giordano diventano così quelle del Tevere, circondate dal paesaggio appenninico della val Tiberina; il fiume scorre dolcemente restituendo sulla sua superficie cristallina ogni particolare della natura circostante.
Ogni elemento è descritto con minuzia e una luce nitida avvolge tutta la visione, secondo gli orientamenti della coeva pittura fiamminga, con la quale l’artista non manca di confrontarsi.
La scena è immersa nell’ora più astratta, il mezzogiorno, quando i corpi perdono le ombre, il contatto con la terra e la fisicità per confluire in un’atmosfera sospesa e irreale.
Un senso di calma meditativa e solenne pervade tutta la rappresentazione: il gesto elegante e rispettoso del Battista circonda l’immagine centrale del Cristo, scandito dalla luce perlacea e assorto con il capo chino, come a riflettere sul proprio destino.
Le immagini sono frutto di una raffinata operazione mentale, che purifica la realtà fino a svelarne l’intima essenza geometrica. Ne deriva un’intima comunione tra uomo e natura, rivelata dalla fusione tra le figure statuarie, scolpite dalla luce, e il paesaggio reale, descritto con gran cura.
PER SAPERNE DI PIÙ …
LA FLAGELLAZIONE: ANALISI ICONOGRAFICA
Tra le letture iconografiche della scena in primo piano nella tavola della Flagellazione vi è quella che identifica il giovane biondo e scalzo situato al centro con Odantonio, fratellastro del duca di Urbino, nonché suo predecessore, ucciso a soli diciassette anni in una congiura. Tale individuazione rapporta il destino subito da Odantonio alla flagellazione patita dal Cristo.
Altre proposte, invece, chiamano in causa la politica urbinate del tempo in relazione ai contrasti religiosi tra la chiesa ortodossa e quella cristiana, con riferimento alla figura del cardinale Bessarione, il delegato bizantino all’apertura del Concilio di Ferrara e Firenze del 1438-39 per l’avvicinamento delle due fedi cristiane. La flagellazione costituirebbe allora un’evocazione, come se il Bessarione, identificato con il personaggio di sinistra, ne stesse parlando con i suoi interlocutori, coincidenti secondo alcuni studiosi con Buonconte da Montefeltro, figlio del duca di Urbino, al centro, e con l’umanista Giovanni Bacci, a destra. Secondo questa ipotesi, la presenza dei tre uomini alluderebbe a una conversazione finalizzata a convincere il duca di Urbino ad aderire al progetto di una crociata per la liberazione di Costantinopoli dai Turchi.
DENTRO L'OPERA
LA SACRA CONVERSAZIONE (1472-1474) – Milano, Pinacoteca di Brera
La Sacra Conversazione, conosciuta anche come Pala di Brera per l’attuale collocazione nella pinacoteca milanese, si distingue per una magistrale resa dello spazio, definito da sapienti citazioni classiche e da una studiata impostazione prospettica.
L’impressione piuttosto compressata della scena si spiega ipotizzando un probabile intervento di mutilazione dei bordi della tavola, di cui si ignorano le ragioni. Tuttavia, la calibrata impaginazione architettonica si rivela nella sua più compiuta regia scenografica. Essa emerge nella parte superiore del dipinto, dove due arcate protese verso l’esterno, visibili solo in parte, introducono a un’elegante volta a botte impreziosita da cassettoni a rosoni e a un originale catino absidale insediato da una conchiglia, da cui pende un uovo di struzzo, simbolo della maternità verginale di Maria, in relazione alla diffusa credenza che sia covato dal sole.
Una luce tersa proveniente da sinistra investe questo monumentale scenario architettonico esaltandone ogni aspetto, per poi irradiare le solide volumetrie dei corpi disposti ritmicamente intorno alla Vergine, nella parte inferiore della tavola.
I bagliori luministici, sapientemente dosati, s’insinuano tra le piegature delle vesti, fino a rifrangersi sulle superfici metalliche dell’armatura del duca, in primo piano a destra.
Il tappeto, le stoffe, i gioielli si animano di un sontuoso preziosismo decorativo, descritto ancora una volta secondo i modi analitici della pittura fiamminga.
La scena sacra, segnata dalla consueta rarefazione temporale pierfrancescana, presenta una lettura iconografica che tesse in un’unica trama le vicende legate alla religiosità cristiana con gli eventi relazionati al casato di Federico da Montefeltro, signore di Urbino e committente dell’opera.
Nella sacralità della visione della Vergine circondata da angeli e santi presenzia infatti anche il duca, raffigurato in primo piano a destra, in ginocchio, con le mani giunte, in un assorto atteggiamento ossequioso, evidenziato anche dal suo porgere il bastone del comando ai piedi di Maria. La lucente armatura indossata da Federico, in cui luci e colori si rinfrangono con superba abilità, rimanda ai suoi successi militari; nel volto della Vergine, invece, si tende a riconoscere le fattezze di Battista Sforza, moglie del duca, morta dopo aver dato alla luce l’erede Guidobaldo, che andrebbe dunque identificato con il Bambino Gesù.
Secondo tale ricostruzione, il duca si prostra in preghiera ai piedi della Vergine affinché interceda per l’amata defunta. Inoltre, la costruzione architettonica dello sfondo, così protesa verso l’esterno, consente a chi guarda il dipinto di partecipare a questo solenne momento di raccoglimento, entrando a far parte della suggestiva aura diafana della scena, sospesa in un tempo e in uno spazio senza fine.