Antonello da Messina (1430 ca. – 1479) è l’innovatore del panorama artistico quattrocentesco dell’Italia meridionale.
Nato a Messina, dove avviene la sua prima formazione, intorno al 1450 si sposta a Napoli, città a quel tempo cosmopolita e segnata da una feconda vivacità culturale. Qui l’artista ha modo di aprirsi ai linguaggi iberici, provenzali e soprattutto fiamminghi, questi ultimi appresi anche grazie agli insegnamenti di Colantonio, pittore locale di cui non si hanno molte notizie, tradizionalmente ritenuto maestro di Antonello.
La complessa trama di ispirazioni culturali che anima lo scenario artistico partenopeo si rivela già nella Madonna Salting, opera giovanile realizzata sul finire degli anni Cinquanta. In essa la raffinata sontuosità di sapore iberico e la sinuosa eleganza degli stilemi provenzali incontrano il gusto fiammingo di una setosa lucentezza e di un’accurata ricchezza di accessori.
Antonello si lascia conquistare dai modi pittorici delle Fiandre e si specializza nel dipingere a olio, attratto dagli straordinari giochi di luce di questa tecnica ancora poco utilizzata in Italia.
Nel 1457 rientra a Messina dove consolida l’attività di pittore. Nella città natia resterà fino alla morte, allontanandosi soltanto per compiere dei lunghi viaggi: uno in Italia centrale, l’altro a Venezia.
Nel primo, documentato intorno al 1470, si reca a Roma, in Toscana e nelle Marche e ha così modo di conoscere la pittura di Piero della Francesca, gli studi prospettici e la purezza formale; il secondo soggiorno, invece, condotto tra il 1474 e il 1476, lo porta a contatto con la pittura del Bellini, con cui tesse un fecondo scambio artistico, aprendosi ai suoi lirismi luministici.
Queste esperienze portano a somma maturazione l’opera di Antonello, che si distingue per la mirabile sintesi pittorica, in cui armonizza alla perfezione luci, forme e colori, secondo una visione sobria e monumentale.
Un esempio dell’alta perizia esecutiva dell’artista è offerto dalla piccola tavola del San Girolamo nello studio, caratterizzata da un’originale articolazione spaziale, equilibrata e definita da attente modulazioni della luce.
Un arco catalano introduce a un interno goticheggiante, scandito da volte ogivali e bifore. Al centro della composizione si staglia un’impalcatura lignea rialzata, una sorta di spazio nello spazio, un ambiente raccolto ospitato in un più ampio vano. In esso trova posto la figura austera del San Girolamo, intento nei suoi studi umanistici, mentre dalla galleria sulla destra giunge il leone, oscurato dal controluce. Secondo l’aura leggendaria fiorita intorno alla figura di questo Padre e Dottore della Chiesa vissuto nel IV secolo, egli si sarebbe ritirato in preghiera nel deserto della Calcide, dove avrebbe incontrato un leone tormentato da una spina ficcatasi in una zampa; una volta tolta, l’animale si sarebbe placato divenendo fedele seguace di Girolamo.
Sullo sfondo si aprono due finestre da cui s’intravede un ameno paesaggio collinare, illustrato con dovizia di particolari, nonostante le modeste dimensioni della tavola (46×36,4 cm). Anche le piastrelle della pavimentazione, di fattura valenciana, le rifiniture architettoniche e gli oggetti sulle scaffalature sono descritti con cura meticolosa, ricevendo un’ulteriore definizione da una sapiente regia luministica: ombre, luci ed effetti di controluce animano lo spazio razionale di questo piccolo dipinto di devozione privata.
Antonello opera qui una raffinata sintesi mediando con abilità tra il rigore prospettico pierfrancescano e il descrittivismo fiammingo.
Tra il 1474 e il 1476 si colloca la realizzazione della Vergine annunziata, nutrita da un’intensa spiritualità di sapore belliniano.
A questi anni risale infatti il soggiorno veneziano e l’artista siciliano ha modo di apprezzare i soavi toni intimistici delle opere del Bellini, aprendosi anche alle sue suggestive modulazioni lumnistiche.
L’Annunziata si distingue per l’originalità della trattazione iconografica, in cui l’artista esclude l’apparizione dell’angelo per concentrarsi sull’atteggiamento pensoso e profondamente umano di Maria.
Il fatto sacro è svelato dalla sola figura della Vergine, avvolta con fermezza nel suo manto blu. Turbata dall’improvviso arrivo divino, con una mano tende a chiudere la veste in segno di protezione, mentre nel lieve cenno di tremolio dell’altra mano, abilmente scorciata in avanti, rivela tutto il suo stupore.
Il libro aperto, con le pagine spiegate, concorre a rendere l’idea di irruzione della creatura soprannaturale e il leggìo ligneo, audacemente proiettato in primo piano, chiama in causa lo spettatore che, complice l’assenza dell’angelo, acquista il ruolo di unico testimone dell’evento.
Una nitida luminosità, in contrasto con il fondo nero, investe i volumi puri della figura e dona matericità al legno forato dai tarli e alla pesante stoffa che avvolge il raffinato volto di Maria.
Al soggiorno lagunare risale anche una pala d’altare realizzata per la veneziana Chiesa di San Cassiano. Nel Seicento l’opera viene però rimossa dall’edificio e smembrata in più parti; dopo travagliate vicende pervengono soltanto i tre scomparti centrali ricomposti a Vienna, dove risultano conservati attualmente.
La Pala di San Cassiano suscita grande ammirazione tra i veneziani del tempo, che ne apprezzano in particolare la calibrata costruzione prospettica, capace di conferire unitarietà allo spazio. Oggi, nonostante la mancata integrità dell’opera, possiamo percepirne la fascinosa aura artistica: la Madonna con il Bambino e i santi sono irradiati da una luce tersa, che dona alla scena una trasparenza di sapore nordico, intenta a esaltare tutti i più minuti particolari.
Oltre alle tematiche sacre, Antonello da Messina eccelle anche nel genere del ritratto, a cui apporta significative innovazioni.
Ritrae perlopiù borghesi ed esponenti della piccola nobiltà riuscendo a imprimere nei loro volti una sorprendente vivezza espressiva. Abbandonata la posa del profilo a favore della più efficace soluzione a tre quarti, l’artista coglie l’interiorità del personaggio animandolo di quell’intensa e vibrante umanità che permea ogni sua opera.
Mariaelena Castellano