Per Informale s’intende una tendenza artistica diffusa in Europa e in America, ma anche in Giappone, tra la fine degli anni Quaranta e gli anni Cinquanta.
Si tratta di un movimento tutt’altro che omogeneo, a cui si volgono differenti correnti pittoriche, tutte accomunate dal rifiuto della forma, come appunto suggerisce il nome. Viene bandita sia la forma figurativa, sia quella astratta, come presa di distanza dalle culture artistiche precedenti e, di riflesso, dalla società dei decenni precedenti, generatrice di un’immane catastrofe bellica.
Ne consegue l’abbandono del disegno, ritenuto incapace di spiegare la drammaticità dell’attuale momento storico. Figure deformate e caotici accumuli di materiali possono invece rivelare la grande destabilizzazione dell’uomo, ma anche i suoi valori più intimistici.
Sulla scia di Espressionismo, Dada e Surrealismo, l’Informale propone così immagini forti, dove istinto e casualità lasciano emergere la più profonda interiorità dell’artista.
Il venir meno della forma lascia spazio ad altre componenti, quali la materia, il gesto e il segno, che rappresentano gli elementi fondamentali di questa nuova poetica artistica.
L’azione del fare arte rappresenta il vero e proprio atto creativo e, dunque, è di per sé arte. Il gesto custodisce allora il valore artistico, così come la scelta e le modalità di impiego dei materiali: anche la materia utilizzata è arte. Ed è arte il segno realizzato sulla tela, un segno forte, espressivo.
La marcata valenza del segno, con colori che, mescolati ad altre sostanze, si tramutano in materia, è il tratto distintivo del francese Jean Fautrier (1898-1964), considerato l’iniziatore dell’Informale in Europa.
La sua nota serie degli Ostaggi (1943-45) è un grido disperato, dove le rugosità e le crepe della materia si fanno portavoci della drammaticità delle torture inflitte ai prigionieri di guerra, a cui l’artista ha avuto modo di assistere durante la Resistenza.
In Italia emerge invece l’opera di Alberto Burri (1915-1995), che inizia a dedicarsi alla pittura dopo la guerra, probabilmente spinto dalla sua esperienza di prigionia nel Texas.
Burri utilizza i materiali più disparati, materiali poveri, recuperati in depositi o anche nelle discariche dei rifiuti. Li assembla sulla tela, o su un altro tipo di supporto, accostandoli in modo da armonizzarli tra loro, anche in relazione ai colori impiegati.
La materia diventa così la vera protagonista dell’opera, senza simboleggiare null’altro che sé stessa. L’artista ne sperimenta le infinite potenzialità lavorando uno stesso tipo di materiale in più versioni, proprio per poterlo indagare più a fondo.
Nella celebre serie dei Sacchi, avviata dal 1952, impiega brandelli di tele di sacchi, talvolta anche bruciacchiati. La consistenza della grana, l’aspetto lacerato, i filamenti strappati e mescolati ai colori: tutto concorre a raccontare pezzi di vita vissuta e svelata attraverso la povertà di un materiale grezzo e consunto. Inoltre, i giochi di spessore, creati con le sovrapposizioni dei frammenti, inducono a riflettere sulle infinite possibilità spaziali della pittura.
Anche nella serie dei Cretti, negli anni Settanta, Alberto Burri cerca nuovi effetti, ottenuti mescolando il caulino (un particolare tipo di argilla) con il vinavil e dei pigmenti, per poi stendere l’impasto su un supporto di cellotex, materiale industriale formato da colla e trucioli da segatura pressati a caldo. Ne deriva una superficie spaccata, densa di crepe, i cretti appunto. Una superficie che narra i disagi di un tempo pieno di contraddizioni, ma al tempo stesso essa si pone come testimone di una ricerca di nuovi valori, di un desiderio di speranza per un’umanità migliore.
Altri protagonisti nello scenario italiano dell’Informale sono Giuseppe Capogrossi (1900-1972) ed Emilio Vedova (1919-2006). Il primo perviene a una visione astratta incentrata su un unico segno, da lui definito “elemento Capogrossi”, il cosiddetto “tetradente”. Si tratta di una sorta di mezzaluna “a pettine” che si ripete più volte, secondo ordini e percorsi di volta in volta diversi, ma sempre frutto di un ragionato equilibrio compositivo.
L’autodidatta Emilio Vedova, invece, fonda il suo percorso pittorico sulla gestualità e, attraverso pennellate forti, cariche di espressività e di colori violenti, crea opere di grande impatto visivo.
Nell’ambito dell’Informale italiano si può collocare anche la singolare esperienza di Lucio Fontana (1899-1968), le cui teorie sulle dinamiche spaziali della pittura costituiscono le fondamenta dello Spazialismo, una corrente artistica sviluppata tra il 1947 e il 1952.
Se la pittura di Burri si fonda sulla materia, quella di Fontana è incentrata sul gesto, che assume un valore provocatorio e disfattista: lacerazioni, strappi, buchi e, in particolare, tagli, puntano a rivelare una spazialità diversa. Chi guarda la tela è così indotto a riflettere sui suoi confini e sul concetto di spazio, qui inteso come realtà da indagare per superare i tradizionali limiti della bidimensionalità pittorica.
In Concetto spaziale. Attesa (1968) un unico grande taglio campeggia al centro di una tela dipinta di rosso. L’azione del tagliare non va però intesa come un gesto devastante, piuttosto come un modo per aprire la visuale di chi guarda a nuove prospettive, o meglio, di chi le attende, come indica il titolo dell’opera. Il taglio, difatti, è netto, conciso, ricavato da una mano ferma e attenta, priva di intenti distruttivi.
L’audace ricerca di Fontana mette in discussione tutte le certezze, suggerendo al tempo stesso un’immagine di quieto equilibrio, nonché di un rigoroso e austero senso di monumentalità.
L’arte informale caratterizza anche lo scenario americano dell’immediato secondo dopoguerra, dove prende il nome di “Espressionismo astratto”.
Gli influssi introdotti dagli artisti europei rifugiatisi in America durante la guerra si combinano con il forte desiderio di innovazione delle talentuose personalità del luogo, dando così origine a interessanti percorsi informali, individuali nelle loro specificità creative, ma accomunati dal desiderio di liberare l’arte dalla forma e di rinnovarne fortemente il linguaggio.
Tra i principali esponenti della corrente informale statunitense emerge il nome di Jackson Pollock (1912-1956), capofila della cosiddetta “pittura d’azione” (Action painting).
Egli fonda la sua ricerca espressiva sulle tematiche surrealiste, privilegiando le componenti psicoanalitiche e le suggestioni dell’inconscio. Ne deriva una pittura intimamente connessa alla sua interiorità, lasciata emergere attraverso un’intensa gestualità: Pollock opera su grandi tele stese sul pavimento, vi cammina intorno facendo sgocciolare il colore, talvolta steso con movimenti oscillatori; è questa la tecnica del “dripping” (sgocciolatura), parte integrante del suo momento creativo. Da questo processo si ottengono immagini dettate di volta in volta dalla casualità: un groviglio di colori filamentosi, sovrapposti tra loro in intrecci caotici, in cui ognuno può calarsi in modo differente, a seconda del proprio stato d’animo.
Si osservi la grande tela “Pali blu” (1953), scandita da una sequenza di segmenti blu inclinati, sommersi da un intrico di gocciolature e schizzi di colore. Guardando questo insieme convulsivo e indefinito, l’osservatore prova un senso di smarrimento, si sente sopraffatto dal caos irrazionale che pare governare tutto, per prendere così parte attiva dell’opera stessa.
Un altro indirizzo pittorico dell’Informale americano è dato dalla cosiddetta “Pittura per campi di colore” (Color Field Painting), che prende le distanze dall’impeto aggressivo della gestualità dell’Action Painting, per rifugiarsi invece nell’essenza evocativa dei colori. Principale portavoce di questa tendenza è l’ebreo di origini russe Mark Rothko (1903-1970), che fa del colore la sua principale fonte d’ispirazione.
Nelle sue composizioni il colore, ben diluito, viene steso per velature in un susseguirsi di fasce rettangolari dai bordi incerti, appena percepibili. Sancita la sua indipendenza dalla forma, il colore pare oscillare, pervaso da vibranti effetti luministici. E questo suo incessante fluttuare mira a oltrepassare i confini della razionalità per accompagnarci così in una dimensione diafana, intrisa di spiritualità.
M. Castellano