Una prima esperienza artistica di avanguardia storica emerge con la corrente dell’Espressionismo, apparsa sin dai primi anni del Novecento con declinazioni diverse a seconda delle aree geografiche di diffusione.
Il termine deriva dal latino exprimere, letteralmente “spingere fuori”, ovvero esternare tutte le emozioni e i pensieri interiori.
In realtà, a ben vedere, ogni opera d’arte si fonda da sempre sul presupposto di esprimere l’interiorità e la creatività dell’artista, ma nel caso delle tendenze espressioniste questa prerogativa si manifesta come un’esigenza vitale, esternata con un impeto più accentuato, talvolta violento.
Così, se nell’Impressionismo aveva prevalso il percorso inverso, ovvero la realtà esterna che tende a imprimersi nell’io, per poi essere restituita rapidamente da una pittura veloce e istintiva, adesso a prevalere è la complessa soggettività che irrompe sulla tela con colori accesi e innaturali, linee forti e decise, creando un effetto di grande impatto visivo.
Nel periodo compreso tra il 1905 e il 1925 circa, alcune aree europee si aprono a questo fermento innovativo che, come già evidenziato, si basa su una forte esigenza di espressività per poi assumere connotazioni differenti in base al contesto socio-culturale in cui si propaga.
L’avanguardia espressionista s’ispira infatti alla complessa realtà sociale, politica e culturale del tempo: i moti interiori degli artisti nascono dal loro vissuto personale come risposta alla ricezione e alla rielaborazione dei molteplici stimoli esterni.
Proprio in virtù dell’esigenza di esprimere una forte carica emotiva, la realtà viene però trasfigurata e perde le sue connotazioni naturalistiche per far emergere un’interiorità spesso travagliata e complessa, resa attraverso visioni deformate e vibranti di energia.
Le principali tendenze dell’Espressionismo riguardano l’area francese (con il movimento dei “Fauves”), quella tedesca (con il “Die Brucke”) e quella austriaca (con l’Espressionismo austriaco). Esse traggono ispirazione da esperienze artistiche precedenti, quali la pittura postimpressionista di Gauguin e di Van Gogh, ripresa soprattutto in Francia, mentre per quanto riguarda il filone tedesco risulta fondamentale l’esempio offerto dalla pittura di Edvard Munch(*).
I FAUVES
Donatello chez les fauves, “Donatello tra le belve”, esordisce un critico d’arte in visita all’esposizione del Salon d’Automne di Parigi, quando in una sala scorge una statua di gusto classicheggiante collocata tra dipinti dai colori squillanti. Come per gli Impressionisti, anche in questo caso gli artefici delle opere poste sotto accusa, abbracciano il giudizio sprezzante e ne fanno proprio l’appellativo. Assumono dunque il nome di Fauves, le belve, a indicare così la ferocia vitalità insita nell’azione del dipingere e, in particolare, nelle cromie sgargianti, antinaturalistiche e poste spesso in contrasto tra loro.
Se questi presupposti sono comuni alle coeve tendenze espressioniste dell’Europa Settentrionale, i Fauves ne prendono le distanze in merito a quanto comunicano attraverso le loro opere. Mentre tedeschi e austriaci esprimono un malessere interiore e muovono una critica alla società, i francesi manifestano una visione più serena, spesso improntata alla gioia e alla solarità.
L’Espressionismo francese non si organizza in un movimento vero e proprio, ma rappresenta piuttosto una corrente artistica che prende avvio con la summenzionata partecipazione, nel 1905, al Salon d’Automne, per poi iniziare a esaurirsi già un paio di anni dopo, quando la mostra retrospettiva postuma dedicata a Paul Cézanne offre ai Fauves inediti spunti riflessivi per nuovi percorsi da intraprendere.
Tra gli espressionisti francesi figurano pittori quali Henri Matisse(*), André Derain e Albert Marquet. Matisse, in particolare, con il suo prorompente impeto creativo, può a ragione definirsi l’anima portante del gruppo.
DIE BRUCKE
In Germania il movimento espressionista risente delle forti tensioni sociali emerse nel paese con l’avvento del nuovo secolo. A differenza delle contemporanee tendenze dei Fauves, gli artisti tedeschi sentono il bisogno di esprimere il loro disagio interiore nei confronti di una società verso cui muovono critiche e polemiche.
Nel 1905 essi danno voce a questa esigenza e fondano un movimento organizzato a cui danno il nome di Die Brücke, il ponte, alludendo appunto alla necessità di compiere un passaggio, per oltrepassare il vecchio e proiettarsi al nuovo, ovvero all’espressione dei moti interiori dell’animo, resi attraverso un linguaggio violento, fatto di linee taglienti e colori acidi.
Tra i fondatori del Die Brücke emerge la personalità travagliata di Ernst Ludwig Kirchner (1880-1938). Il suo disappunto verso la società contemporanea si manifesta appieno in “Scena di strada berlinese” (1913), dove una calca di persone anima le strade della metropoli tedesca, ognuna persa nelle sue frenesie. Agghindati nei loro abiti eleganti, tra cappelli a cilindro e copricapi con piumaggi, questi personaggi appaiono come freddi e inespressivi manichini, con gli sguardi persi altrove, uno a contatto con l’altro, eppure isolati in una propria dimensione.
I corpi sono definiti da una linea spigolosa che, insieme ai violenti contrasti cromatici e al soffocante ribaltamento prospettico, genera un effetto spiazzante in chi guarda.
Proprio nell’anno in cui Kirchner dipinge “Scena di strada berlinese”, il Die Brucke si scioglie per contrasti interni e gli artisti che ne facevano parte intraprendono percorsi diversi, pur restando sempre nella scia del movimento espressionista.
Quelli che seguono saranno anni difficili per artisti e intellettuali tedeschi, anni fortemente ostili, in cui la Germania sarà segnata dalla sconfitta subita nella Grande Guerra e dalla successiva ascesa al potere di Adolf Hitler.
L’ESPRESSIONISMO AUSTRIACO
In Austria l’Espressionismo non si manifesta come un movimento organizzato. Inoltre, i due maggiori esponenti di questa corrente, Oskar Kokoschka e Egon Schiele, pervengono a linguaggi differenti, seppur entrambi carichi di una vitale energia interiore.
Oskar Kokoschka (1886-1980), allievo di Klimt, esordisce nell’ambito della Secessione viennese, per poi entrare a contatto con l’esperienza del Die Brucke. Egli non aderisce al movimento tedesco, ma elabora uno stile personale, connotato da forti tensioni espressioniste.
In “La sposa del vento” (1914) una coppia di amanti viene trasportata dal vento, in balia di una tempesta. La donna dorme trovando conforto tra le braccia dell’amato che, al contrario, veglia in preda alla tensione. La scena è autobiografica e allude alla tormentata storia tra l’artista e Alma Mahler, vedova del noto compositore austriaco.
Le due figure sono rese attraverso una linea inquieta, con pennellate convulse e colori spettrali che si mescolano alle tinte blu e grigie dello sfondo, dove in una caotica oscurità notturna emerge la solitudine di un paesaggio montuoso.
La pittura di Egon Schiele (1890-1918) muove i primi passi nel solco dell’esperienza secessionista. Klimt assume un ruolo fondamentale per il giovane artista, che si rivolge a lui come a un mentore, prendendone tuttavia le distanze nell’operare artistico. I sontuosi decori aurei e le sinuosità floreali cedono infatti il passo a un crudo realismo, reso tramite marcate linee spigolose e pose contorte.
Schiele è pervaso da una profonda inquietudine esistenziale che traspare nell’aspra durezza delle sue forme, come nella scelta trasgressiva di soggetti erotici segnati da contorni nodosi e da una colorazione nervosa.
Si osservi “L’abbraccio” (1915), ben lontano nelle scelte esecutive dall’omonimo soggetto klimtiano. La scena è dominata dal convulso abbraccio di due amanti. I loro corpi nudi sono avvinghiati uno sull’altro, in preda al delirio della passione, ma i toni drammatici paiono stemperarsi nel gesto tenero della donna che accarezza il volto dell’amato, tenendolo stretto a sé. Intorno a loro emerge il candore bianco del lenzuolo, in un abile gioco di pieghettature frastagliate.
Mariaelena Castellano
EDVARD MUNCH (1863-1944)
Per comprendere la tensione e l’inquietudine dell’opera del norvegese Edvard Munch, occorre tener presente la sua infanzia difficile, costellata da lutti e malattie, nonché il suo volersi estraniare dalla società e dalle sue convenzioni, per assecondare piuttosto il bisogno di autenticità.
Egli comprende appieno il potere espressivo dell’arte, svincolandola dal compito di raffigurare il vero per dialogare con le emozioni più genuine della sua turbata interiorità.
“L’urlo”, il celebre dipinto di Munch, realizzato in più varianti nell’ultimo decennio del XIX secolo, rappresenta il manifesto emblematico di tutto il suo malessere esistenziale, simboleggiando anche il travaglio della società di fine Ottocento, oppressa tra le contraddizioni e le complessità del tempo.
Nella versione del 1893, custodita nel Museo Nazionale di Oslo, la scena è segnata da una visione deformante in cui emerge, in primo piano, una figura umana serpentinata, dalla consistenza molle.
Indossa una veste nera che contrasta con il colore verdastro della pelle. Il volto, ridotto a un teschio delineato con pochi semplici tratti, è stravolto: gli occhi sono sgranati, la bocca è spalancata, nell’atto di emettere un grido. Questo essere inquietante libera un grido così forte da esserne poi sopraffatto egli stesso, portandosi le mani alle orecchie per non sentirlo. Un grido disperato che si propaga nell’aria mescolandosi all’urlo della Natura.
Così, il cielo si tinge di venature rosse, arancioni, gialle e si dipana in lingue sinuose, avvolgenti come potenti onde sonore. Il grido umano si unisce a quello della Natura per esprimere tutte le ansie e i tormenti che logorano l’animo dell’artista.
Egli infatti si identifica in questa figura grottesca e attraverso di essa, nell’atto stesso del dipingere, urla tutta la sua disperazione: “Camminavo lungo una strada con due amici. Il sole tramontava, il cielo si è improvvisamente mutato in sangue e io ho sentito la natura lanciare un grido immenso”. Così scrive l’artista, poco tempo prima di realizzare l’Urlo e dare voce a tutto il suo male di vivere.
Egli si tramuta allora in questa sorta di alieno, privo di connotazioni fisionomiche, quasi a voler simboleggiare indistintamente anche tutto il genere umano. La sofferenza del singolo, come dell’intera società, dunque. Da un’iniziale visione strettamente autobiografica Munch eleva la sua opera a un contenuto universale e sempre attuale.
La creatura dal volto allucinato diventa espressione di un malessere indicibile: si volge verso lo spettatore, come a volerlo coinvolgere e interrompe così il suo cammino lungo la pronunciata diagonale del ponte ligneo in primo piano. Il ponte simboleggia da sempre il tentativo di superare un ostacolo e questo fermarsi senza incedere oltre testimonia tutta la fragilità di una profonda inquietudine esistenziale. Un’angoscia che lacera l’animo e che non viene avvertita da chi, invece, continua incurante il suo percorso: le due sagome sullo sfondo rappresentano i due presunti amici del pittore, ma anche la società di massa, spesso distratta e lontana dalle sofferenze altrui.
HENRI MATISSE (1869-1954)
L’iniziazione all’arte di Henri Matisse è del tutto casuale: dopo aver intrapreso gli studi di giurisprudenza, in un periodo in cui è ammalato e quindi costretto a letto, riceve in regalo una scatola di colori. Scopre così una grande passione per la pittura e da questo momento il colore diventa il veicolo per esprimere il suo entusiasmo per la vita.
Inizialmente guarda agli esempi impressionisti e postimpressionisti, per poi sviluppare un suo linguaggio personale, improntato all’uso antinaturalistico di colori accesi e alla semplificazione delle forme.
Tra le prime opere di Matisse figura “Donna con cappello”, dipinta nel 1905 per il Salon d’Automne. Si tratta del ritratto di sua moglie, qui resa in modo del tutto anticonvenzionale.
Il soggetto, privo di alcun costrutto plastico, appare contorto in una posa poco naturale, così come poco veritieri risultano i colori, stesi con veemenza sulla tela e accostati secondo coppie di complementari. quel che emerge, tuttavia, va ben oltre il tradizionale concetto di verosimiglianza: Matisse intende svelare le sue sensazioni più intime e ciò si può percepire nell’arguta espressività del volto della donna, rinvigorito dagli arditi sprazzi di colore puro.
Negli anni successivi l’artista sperimenta un uso sempre più libero del colore unitamente a un tratto marcato del disegno, con linee di contorno spesse e colorate, in un crescendo di semplificazione formale. Le pose si prestano a volute visioni deformanti, capaci di esprimere al meglio la carica espressiva di Matisse.
Si osservi, ad esempio, il dipinto “Stanza rossa”, realizzato nel 1908: l’incontrastato protagonista dell’opera è il colore rosso, che si staglia sulla tovaglia come sul parato, rinvigorito dai decori blu degli arabeschi e dall’intensa cromia verde del prato.
La sedia impiallacciata, la tavola imbandita, la donna intenta a sistemare la frutta: ogni dettaglio concorre a trasmettere una festosa atmosfera e l’idea di un momento sereno.
Il tema della spensieratezza torna anche negli altri dipinti e viene proclamato con grande enfasi nella celebre “Danza”, una delle opere più note di Matisse, realizzata nel 1910 in coppia con “Musica” per un collezionista russo.
Per la scelta del soggetto l’artista trae ispirazione da altri dipinti, quali “L’età dell’oro” di J-A. D.Ingres, ma del tutto nuova risulta la sua interpretazione. Il grande pannello è dominato da un girotondo di uomini nudi che danzano. Il loro incarnato è reso con una sgargiante cromia arancione che contrasta con il blu intenso del cielo e con il verde del prato. I corpi sono modellati da una potente linea di contorno con cui si enfatizza l’andamento ritmico e serrato dei movimenti. Le cinque figure appaiono maestose, giganteggiano nell’angusto spazio della tela, adattandosi ai suoi contorni e dando così l’impressione che la collinetta su cui si adagiano coincida con la sfera del globo terrestre, come a voler esaltare l’intero equilibrio cosmico. Matisse, infatti, propone la danza come armonia tra l’uomo e la natura, in un crescendo di vitalità e dinamismo.
Nel pannello della “Musica”, invece, i personaggi raffigurati appaiono immobili nel loro isolamento, persi nella contemplazione dell’ascolto e della composizione, ma sempre in armonia con il creato.
Negli anni successivi, lasciatasi alle spalle l’esperienza del fauvismo, Matisse approda a una purezza formale vicina all’essenzialità dell’arte primitiva. Quest’ultima dagli inizi del Novecento viene presa in gran considerazione da numerosi artisti europei. Desiderosi di rompere con la tradizione, essi approcciano così una nuova visione dell’arte, finalmente libera dai secolari condizionamenti del naturalismo.
In “Nudo rosa” (1935) una figura femminile nuda occupa tutto lo spazio della tela, assumendo così un’accentuata monumentalità, nonostante le sue esigue dimensioni.
Lo sfondo in piastrelle si complica nelle compenetrazioni geometriche dei piani orizzontali con quelli verticali. Sul blu intenso delle piastrelle emerge la tinta forte di rosa dell’incarnato. Anche se il colore è steso in modo piatto e uniforme, il corpo della donna riceve un respiro plastico dalla marcata linea di contorno, energica e sinuosa. Il volto si riduce invece a un ovale con lineamenti molto semplificati, come una sorta di maschera tribale.
Questa riduzione all’essenziale non impedisce all’opera di sprigionare una carica di intensa sensualità.
Negli ultimi anni della sua lunga vita, Matisse inventa i papiers découpés, le “carte ritagliate”, ovvero immagini ricavate da ritagli di carta dipinta a tempera.
Ne derivano figure sempre più semplificate: sagome monocromatiche quali “Icaro” o la serie di “Nudi blu”, dotate di una grande vitalità espressiva, la stessa che contraddistingue tutto il percorso artistico di Matisse, un percorso dove le potenti energie di linee e colori sono un inno alla vita.