Dopo il ciclo di lezioni dedicato all’affascinante percorso evolutivo dell’arte greca, la prossima mossa del nostro “scacchiere” ci fa approdare in terra italiana. Torniamo così indietro nel tempo, nei secoli che hanno preceduto l’affermazione della potenza romana, per conoscere le più antiche civiltà che hanno abitato il nostro paese.

Posizionata quasi al centro del Mediterraneo e collegata al nord con l’Europa, la penisola italica si pone come crocevia dei principali traffici commerciali e culturali sin dai periodi più remoti.

Nel II millennio a.C., in piena Età del bronzo, quando fioriscono le più evolute civiltà orientali, in Italia si conduce ancora una vita  agricola e pastorale. In alcune aree, le popolazioni  dimorano in villaggi di palafitte, ad esempio nel paese rurale di Fiavé, in provincia di Trento, oggi si possono ancora ammirare resti di queste primitive costruzioni lignee; in Sardegna, invece, come già esaminato nella lezione dedicata all’età dei metalli, si diffonde la tipologia costruttiva del nuraghe, torre in pietra di forma tronco-conica, di cui sono pervenuti oltre 7000 esemplari.

Nel passaggio tra II e I millennio a.C. inizia a configurarsi meglio il quadro etnico della penisola: stirpi autoctone si mescolano ad altre di provenienza indoeuropea dando origine a un variegato mosaico di popoli, le cui denominazioni sono tutt’oggi presenti nella toponomastica di alcuni territori italiani.

Si tratta di stanziamenti spesso non ben distinguibili tra loro, né per cronologia, né per confini geografici, nonché caratterizzati da differenti origini, linguaggi e modi di vivere.

Tuttavia, in questo scenario multietnico dell’Italia preromana, a partire all’incirca dall’VIII secolo a.C., emergono due realtà più consolidate e meglio indagate: mi riferisco alla presenza ellenica lungo le coste della Sicilia e dell’Italia meridionale(*) e alla civiltà etrusca, sviluppatasi nei territori corrispondenti grossomodo alle attuali regioni dell’Emilia Romagna e della Toscana.

Tutti gli altri popoli, invece, sono genericamente indicati come Italici e risultano distribuiti in varie aree del territorio peninsulare. Tra i principali ceppi, nelle regioni settentrionali, si riconoscono i Veneti, i Celti e i Liguri; in quelle centrali, oltre agli Etruschi, figurano i Piceni,  gli Umbri, i Sabini e i Latini; nel Sud, a diretto contatto con le colonie greche, ma anche con quelle fenicie e cartaginesi, dimorano i Sanniti, i Lucani, gli Iapigi e i Siculi; e ancora, in Sardegna, i Sardi.

E’ a partire dal X secolo a.C. che si assiste all’affermazione di una prima cultura più sviluppata, facente capo alla cosiddetta civiltà villanoviana. Il nome deriva dal centro di Villanova, nei pressi di Bologna, dove sono rinvenuti reperti di una certa importanza, ma si tratta di una realtà che può estendersi anche ad altre aree dell’Italia centrale e che si può definire proto-etrusca, in quanto  da questo nucleo avrà origine la progredita civiltà degli Etruschi.

Tra le testimonianze della cultura villanoviana figurano, in particolare, le urne biconiche, utilizzate per raccogliere le ceneri dei defunti.

Si tratta di vasi stretti alla base che si espandono verso l’alto,  coperti da una sorta di ciotole rovesciate, talvolta da elmi, per enfatizzare la condizione di guerriero del defunto.

Con l’urna biconica, attraverso l’impiego dei due vasi, s’intende alludere al dualismo del corpo e dello spirito del defunto, ricomposto simbolicamente nell’assemblaggio dei manufatti cinerari. Questa produzione attesta, dunque, lo stato avanzato   della civiltà villanoviana, che sul finire dell’VIII secolo a.C., quando viene man mano assorbita da quella etrusca, assiste alla nascita dei suoi primi centri urbani.

Nel panorama culturale dell’Italia preromana, merita menzione anche la stirpe italica dei  Piceni, su cui si è fatta luce negli ultimi periodi, grazie a importanti ritrovamenti archeologici di utensili, armi e ceramiche attestanti una notevole qualità artigianale.

I Piceni si stanziano sin dal IX secolo a.C. nelle aree oggi corrispondenti  in gran parte alle regioni delle Marche e dell’Abruzzo, raggiungendo il loro periodo di maggior fioritura tra il VI e il V secolo a.C.

Popolo in origine dedito alla pastorizia e all’allevamento, presto si evolve anche in ambito commerciale:  intensi risultano gli scambi con le altre civiltà del Mediterraneo, con la conseguente ricezione di nuovi stimoli culturali.

Tra le opere di area picena, significativa la monumentale statua del cosiddetto Guerriero di Capestrano(*), una preziosa testimonianza artistica segnata dall’elaborazione di un linguaggio autonomo, svincolato dagli influssi ellenici e orientali, all’epoca dominanti.

Altre importanti produzioni  italiche si riconoscono nelle steli funerarie riferibili alla cultura daunia, in Puglia.

  Stele femminile daunia (VII-VI sec a.C.)

Si tratta di lastre di pietra calcarea di colorazione chiara e dalla consistenza piuttosto friabile, che venivano conficcate nel terreno con funzione segnaletica. Realizzate in particolare tra il VII e il VI secolo a.C., prendono il nome dai loro produttori, i Dauni, un sottogruppo etnico degli Iapigi.

Le steli sono ispirate alle raffigurazioni umane, come dimostrano la teste a tutto tondo che sovrastano le composizioni; sulle parti frontali, invece, risultano incise le braccia e le vesti dei defunti.

Si noti come il linguaggio stilistico sia volutamente fondato su una raffinata astrazione che tende a schematizzare le forme. Del resto, questa visione semplificata di una realtà espressa in chiave simbolica si può riscontrare nella maggior parte dei manufatti italici.

Si tratta di una produzione strettamente connessa all’artigianato: gli oggetti realizzati per finalità pratiche esulano dalla serialità e godono di una significativa connotazione estetica. In genere, le decorazioni richiamano motivi geometrici di chiara derivazione greca, rivisitati in forme ora più  umanizzate, ora più astratte e schematizzate.

In sintesi, si può dire che il quadro culturale italico di epoca preromana, conosciuto in gran parte grazie ai reperti rinvenuti nei corredi funebri, risulta variegato e anonimo, nonché caratterizzato da una significativa influenza ellenica, spesso mediata dalla cultura etrusca.

L’arte e la cultura di questi popoli, a partire dal IV secolo a.C., subiscono l’inarrestabile influsso della potenza romana, fino a lasciarsi “romanizzare” entrando così nell’orbita di questa nuova realtà storica, di cui tratteremo a breve, non prima di occuparci in modo più esaustivo dell’antica civiltà etrusca.

Mariaelena Castellano

PER SAPERNE DI PIÙ…

(*)Le colonie greche della Sicilia e della “Magna Grecia”

A partire dall’VIII secolo a.C., lungo le coste dell’Italia meridionale e della Sicilia, una massiccia ondata migratoria greca porta alla formazione di nuovi progrediti centri urbani, che non si erano mai visti in Italia.

Attirati dal clima mite e dalla fertilità delle terre, i Greci istituiscono una rete di colonie che conosce sviluppi rapidi e sorprendenti, con fiorenti commerci e attività culturali, che fanno guadagnare all’area italica meridionale l’appellativo di “Magna Grecia”.

Secondo le fonti, la prima colonia ellenica del sud Italia sarebbe Kyme (Cuma), fondata lungo il litorale flegreo, in Campania, intorno al 720 a.C. circa, da contingenti greci provenienti dall’isola di Rodi. Pare abbiano creato prima l’avamposto ischitano di Pithecussai, per poi approdare lungo la costa cumana e spingersi, in un secondo momento, più a sud costituendo un nucleo abitativo in quella che poi sarà battezzata Neapolis, nuova città, ovvero l’attuale capoluogo campano di Napoli.

Altre importanti colonie della Campania sono Dikaiarcheia (Pozzuoli),  Elea (Velia) e Posidonia (Paestum). Nel resto dell’Italia meridionale, tra le numerose città di fondazione greca, segnalo Taras (Taranto), Thourioi (Sibari), Metapontion (Metaponto), Kroton (Crotone) e Reghion (Reggio Calabria); e ancora, tra le colonie siciliane: Akragas (Agrigento), Zancle (Messina), Selinùs (Selinunte), Syrakousai (Siracusa) e Katane (Catania).

Le città sorgono ben distanziate le une dalle altre, in modo da evitare scontri per mire espansionistiche; esse mantengono gli usi e i costumi della madrepatria, ma risultano di fatto autonome nelle scelte economiche e politiche.

Anche l’arte presenta un carattere autonomo, con una spiccata predilezione per linguaggi  più originali e creativi: i Greci portano con sé i raffinati stilemi della propria terra d’origine, a cui si sentono legati per spirito e affinità avvertendo, però, la libertà di rielaborarli in modo innovativo e fantasioso.

In architettura, all’uso del marmo si preferisce quello del calcare, maggiormente reperibile, ma di consistenza più friabile: per proteggerlo dalla salsedine marina viene  ricoperto da strati di intonaco e terracotta, con il rischio di un’ornamentazione eccessiva, a cui si perviene anche attraverso una ricca presenza di decori fittili.

I templi più diffusi sono di ordine dorico, ma spesso la creatività artistica coloniale porta a un’ibridazione con quello ionico. Appaiono imponenti e presentano una pianta allungata con la cella piuttosto arretrata, in modo da conferire una maggiore profondità al pronao, provvisto di una duplice fila di colonne. L’opistodomo, invece, risulta sostituito da un ambiente realizzato sul fondo della cella e privo di aperture verso l’esterno, che fa ipotizzare la pratica di nuovi culti religiosi introdotti in ambito coloniale.

Tra gli edifici sacri meglio conservati, ricordo i templi di Paestum(*) per la Magna Grecia, e il Tempio della Concordia, ad Agrigento, per la Sicilia.

Quest’ultimo si erge nel suggestivo scenario archeologico della Valle dei Templi, dichiarato dall’UNESCO Patrimonio mondiale dell’Umanità dal 1997. In questo sito si conservano i resti dell’antica Akragas, con le vestigia di tre santuari e di ben dodici templi di ordine dorico. Probabilmente, più che per ragioni religiose, questa proliferazione costruttiva di vocazione sacra si spiega con l’esigenza degli Agrigentini di esaltare la propria potenza agli occhi delle altre colonie sicule.

È in quest’ottica che si può leggere anche la maestosa grandezza del Tempio della Concordia, innalzato all’incirca nel 430 a.C. su un massiccio basamento atto a raggirare i dislivelli del suolo. Poiché non è stata tramandata la sua divinità dedicatoria, esso prende nome dal ritrovamento, nelle vicinanze, di un’iscrizione latina consacrata alla concordia degli agrigentini.

Di pianta periptera esastila, presenta un aspetto pressoché intatto, risultando uno dei templi dell’antichità greca in miglior stato di conservazione.

Passando dall’architettura all’ambito scultoreo, per la statuaria a tutto tondo, i coloni greci utilizzano in prevalenza il bronzo, dato il difficile rinvenimento di marmo. Tuttavia, nel corso dei secoli le statue vengono distrutte per il recupero del bronzo, con il conseguente venir meno di queste importanti testimonianze plastiche.

Dalle fonti letterarie apprendiamo di numerose raffigurazioni di divinità, scolpite in modo da risultare ben caratterizzate nella loro individualità, talvolta resa anche con un’esasperata definizione fisionomica.

Perse le opere statuarie, in compenso si conservano diverse metope provenienti dagli edifici templari. Un noto esempio è fornito dalla ricca serie di metope di età arcaica rinvenute presso l’Heraion situato alla foce del Sele e oggi esposte nel Museo Archeologico di Paestum.

Le lastre, riferibili al 570-560 a.C., sono in pietra arenaria e, fatto insolito, risultano scolpite da sole oppure insieme a un triglifo. Un’altra particolarità che le caratterizza è data dai differenti stati di lavorazione in cui ci sono giunte: i rilievi, poco sporgenti dal fondo, in alcune parti sembrano appena sbozzati, in altre, invece, appaiono ben rifiniti.

Vi sono raffigurate svariate scene epiche e mitologiche di derivazione greca, come le dodici fatiche di Eracle, la Centauromachia e l’Ilioupersis.

Il linguaggio riflette le scelte stilistiche della scultura di età arcaica della madrepatria: i corpi sono delineati in modo piuttosto rigido e i volti presentano il tipico sorriso arcaico. Permane, inoltre, la ricerca di un equilibrio armonico delle forme, mentre un aspetto più incline allo spirito innovativo coloniale si può ravvisare nei ritmi concitati e nella verve espressiva.

Nel Museo archeologico di Paestum sono esposti anche gli unici reperti pittorici rinvenuti nelle colonie greche d’Italia. Si tratta delle lastre affrescate facenti parte della cosiddetta “Tomba del Tuffatore”, una sepoltura a cassa interamente dipinta all’interno, emersa  nel 1968 nella cittadina campana.

Si tratta di una scoperta di grande portata, in quanto ad oggi questi affreschi rappresentano l’unico esempio pervenutoci della grande pittura greca non vascolare.

I dipinti, riferibili agli anni compresi tra il 480 e il 470 a.C., raffigurano una scena di banchetto lungo le pareti, mentre sul retro della lastra di copertura, un giovane uomo si tuffa da un trampolino.

Poiché l’usanza di dipingere le sepolture non appartiene al mondo greco, si è ipotizzato che la Tomba del Tuffatore possa testimoniare gli influssi culturali degli Etruschi, stanziati a nord del fiume Sele.

Tuttavia, rispetto alla vivace connotazione naturalistica delle pitture etrusche, gli affreschi di Paestum mostrano un’atmosfera più garbata, pervasa da un suggestivo effetto di sospensione.

In particolare, tra le scene dipinte, spicca quella del tuffatore, che dà il nome alla tomba. In essa si può cogliere un messaggio spirituale connesso al trapasso dalla vita alla morte ed espresso metaforicamente con il balzo  nelle acque del mare: l’uomo lascia le certezze della sua esistenza terrestre, evocata dai simposi dipinti nelle altre scene, per gettarsi nell’ignoto, che attende ognuno di noi.

I toni pacati della narrazione e  i raffinati linearismi  lasciano intuire una visione serena della morte, immaginata come il trapasso a conoscenze più profonde, in linea con il pensiero della filosofia metafisica, diffusasi nel V secolo a.C.

Le colonie campane di Poseidonia ed Elea

Nella provincia di Salerno, nella località di Paestum, la Poseidonia greca,  è possibile percorrere una parte del tracciato viario dell’antica colonia della Magna Grecia e imbattersi così in tre maestosi templi dorici di età arcaica.

Il Tempio di Hera, risalente al 540-30 a.C., è il più antico ed è meglio conosciuto come Basilica, in quanto nel Settecento si credeva fosse una basilica romana, ossia un edificio pubblico destinato agli affari e all’amministrazione della giustizia.

Il tempio, di tipo periptero ed ennastilo (cioè con nove colonne sul lato breve), manca di cella, fregio, cornice e frontoni, andati purtroppo distrutti. In compenso, le sue cinquanta colonne perimetrali in pietra calcarea si ergono massicce e ancora quasi totalmente intatte.

Poco distante dalla Basilica e ad essa allineato, sorge l’imponente Tempio di Nettuno, edificato intorno alla metà del V sec. a.C., ovvero nel periodo di massima fioritura del centro. Risulta ben conservato, ancora completo della trabeazione e dei due frontoni. Presenta una cella distinta longitudinalmente in tre navate, con due ordini di piccole colonne sovrapposte, secondo una tipologia diffusa già nel secolo precedente nel Peloponneso.

Nella parte più settentrionale dell’area si trova, poi, il Tempio di Cerere, inizialmente dedicato ad Athena e in un secondo momento consacrato a Cerere, dea della fertilità e dell’agricoltura. Innalzato intorno al 500 a.C., presenta un frontone insolitamente alto e un fregio dotato di larghi blocchi calcarei. A queste peculiarità si aggiunge la collocazione nel pronao dorico di otto colonne con capitelli ionici. Queste scelte innovative attestano la vitalità creativa che contraddistingue i coloni greci di Posidonia.

Lo straordinario stato di conservazione dei templi di Paestum si spiega con il secolare abbandono del sito a partire dal IX secolo, quando l’impaludamento a cui fu soggetta la zona portò alla diffusione della malaria.

Sempre nel salernitano, oltre al più rinomato complesso archeologico di Paestum, va segnalata anche la colonia greca di Elea, la romana Velia,  immersa in una ricca e variegata vegetazione, nel cuore del Cilento, nell’odierna località di Ascea Marina.

L’area archeologica è venuta alla luce a partire dal 1921, durante gli scavi guidati da Amedeo Maiuri, che hanno consentito la scoperta di gran parte dell’antica città, nonché la ricostruzione completa della pianta.

Al soggiorno balneare nei lidi sabbiosi del Cilento si può così associare un itinerario culturale tra le strade dell’antica Elea,  scenario degli incontri tra  ParmenideZenone e Melisso, rinomati filosofi della scuola eleatica.

Tra i resti più significativi, nell’area dell’acropoli, oggi occupata da una fortificazione medievale, emerge la struttura di un teatro risalente al IV secolo a.C., uno dei più antichi esempi di questa tipologia edilizia in Campania.

Inoltre, va segnalata Porta Rosa, posta a collegamento tra i due quartieri della città e dotata dell’unico esempio di arco greco del IV secolo a.C., giunto a noi in un perfetto stato conservativo.

DENTRO L'OPERA

(*)IL GUERRIERO DI CAPESTRANO  – seconda metà del VII-prima metà VI secolo a.C. ca., pietra,  Chieti, Museo Archeologico Nazionale dell’Abruzzo.

L’imponente statua conosciuta come “Guerriero di Capestrano” è stata rinvenuta, in buon stato conservativo, nel 1934 nelle campagne di Capestrano, in provincia di L’Aquila.

L’opera, alta quasi 2 metri, è in pietra calcarea con tracce di colore rossastro e si pone come una sorta di ieratica apparizione.

Le membra del guerriero, rigide e possenti, sono trattate senza prestare particolare attenzione al vero, come dimostrano i fianchi e le spalle, eccessivamente pronunciati.

Un originale cappello a disco sovrasta un volto contraddistinto da fattezze marcate e piuttosto schematizzate, che lo rendono simile a una maschera funebre, senza rivelare alcun interesse ai riferimenti fisionomici.

Del resto, pur essendo a tutto tondo, la scultura è ben visibile soltanto a livello frontale e tergale, mentre lateralmente l’appiattimento dello spessore le conferisce la conformazione di una stele funeraria, tipologia questa, molto diffusa nel Piceno.

Ciò induce a pensare a una  destinazione sepolcrale: l’abbigliamento rituale del guerriero, nonché la presenza di armi e protezioni, alluderebbero, dunque, al rango sociale del defunto, di cui sarebbe fornita un’immagine simbolica.