Tra la fine della Prima Guerra Mondiale e i primi anni Venti, in Italia e in altre parti d’Europa si diffonde un orientamento votato al recupero della tradizione, una sorta di reazione a quel senso di smarrimento generato dalla guerra, ma anche alle sperimentazioni innovative delle prime avanguardie. Tale tendenza, indicata con l’espressione “ritorno all’ordine”(*), mira a un rinnovato interesse per le arti del passato, con particolare riferimento ai pittori del Trecento e del Quattrocento.
L’esperienza della pittura metafisica può considerarsi anch’essa un’espressione di queste tendenze tese al recupero della tradizione artistica italiana.
La nascita ufficiale della Metafisica risale al 1917, ovvero a quando il pittore di origini greche Giorgio de Chirico e suo fratello Andrea, noto con lo pseudonimo di Alberto Savinio, risultano entrambi arruolati a Ferrara, dove fanno la conoscenza del futurista Carlo Carrà. Da questo incontro nasce un fecondo scambio culturale, che dà luogo alla formazione di un linguaggio fondato su un’inedita ripresa dell’arte antica, qui veicolata a nuove suggestioni.
Le opere e gli studi del solo de Chirico costituiscono il substrato principale di questo percorso, come attestano le sue sperimentazioni, intraprese già intorno al 1908 e finalizzate a una pittura più meditativa, protesa alla rivelazione di nuovi aspetti della realtà.
Il termine “Metafisica”, riferito a un gruppo di scritti aristotelici, allude appunto a una realtà diversa, che va oltre ciò che vediamo, ovvero oltre la natura.
Ne deriva una raffinata poetica, dove spazi e oggetti, calati nel silenzio e nell’immobilità, appaiono come intrisi da una connotazione magica, pervasi da una sottile aura di mistero.
“E cosa potrei amare se non l’enigma?” dichiara de Chirico nel suo primo autoritratto, alludendo proprio a quel vago senso di mistero che caratterizza la quotidianità e che egli rende con immagini sospese nel tempo e cristallizzate in un’immobilità laconica. L’enigma è dunque l’incognita, il segreto, ciò che non si può spiegare.
In particolare, nel 1910 l’artista realizza “Enigma di un pomeriggio d’autunno”, in cui riporta un’esperienza tratta dal suo vissuto. Il dipinto mostra uno scorcio di piazza Santa Croce e si riferisce alle sue sensazioni provate dinanzi a tale veduta. Si era da poco ripreso da una malattia e probabilmente la debolezza gli aveva innescato una visione diversa delle cose, una visione straniata, come se guardasse ogni cosa per la prima volta. Tutto gli è parso fermo, fissato in un ermetico “fermo immagine” attraverso una sensazione non spiegabile a parole.
Partendo da queste riflessioni, de Chirico mira a rendere in pittura una sorta di valenza illogica delle cose. Raffigura quindi ampi spazi, piazze e parti di città, privi di tracce umane e attraversati da lunghe zone d’ombra. Gli scenari inanimati creano un voluto effetto inquietante, così come la decontestualizzazione di un oggetto e il suo accostamento ad altri non affini.
Si veda, ad esempio, l’olio su tela “Il canto d’amore” (1914), dove in una piazza italiana compaiono un guanto di gomma appeso a un chiodo, una testa dell’Apollo del Belvedere, una sfera e, sullo sfondo, una locomotiva fumante. Il senso di straniamento provocato in chi osserva è amplificato dalla scelta del titolo, che è lo stesso di una poesia di Apollinaire ed è slegato dall’immagine raffigurata.
Oltre agli spunti provocatori e riflessivi, il dipinto offre un richiamo al pensiero del filosofo tedesco Shopenanhauer, secondo cui la pazzia coincide con il venir meno della catena dei ricordi: la perdita della memoria crea una sottile inquietudine, cosicché ogni cosa appare priva di senso.
Ed è proprio a questo aspetto del non senso che s’ispira la pittura metafisica, pervenendo così a quell’inafferabile aura di mistero che permea ogni cosa.
La serie dechirichiana di dipinti raffiguranti le Piazze d’Italia svela appieno l’intento di costruire nuove atmosfere, pervase da un senso di attesa e imprigionate in un’inquietante e silenziosa immobilità.
Tali sperimentazioni verranno di lì a poco particolarmente apprezzate dall’avanguardia surrealista. Tuttavia, al denominatore comune di una realtà trasfigurata, la pittura metafisica -a differenza del Surrealismo- non fa riferimento al sogno, all’automatismo, alla veglia o all’inconscio.
Essa, senza avvalersi di alcuna dimensione onirica, propone una realtà “altra”, segnata da un significato nascosto, inesplicabile.
Il linguaggio adottato, inoltre, è fondato su una visione naturalistica, prendendo le distanze rispetto ai più arditi stilemi avanguardisti e rinunciando dunque alle sperimentazioni più innovative.
De Chirico si pone infatti nella scia delle tendenze classicistiche summenzionate: Pictor classicus sum, afferma con convinzione, confermando così la sua presa di posizione a favore di un “ritorno all’ordine”.
Ne deriva un linguaggio definito da una rigida impostazione geometrica e da una studiata composizione prospettica, dove convergono la stesura di un colore omogeneo, la percezione di una solida volumetria e la sicurezza di un segno netto.
Anche le scelte iconografiche rispondono all’esigenza di recupero dell’antico: le citazioni classiche emergono nelle monumentali architetture porticate come nelle vestigia scultoree, il tutto congelato in una ferma compostezza, nella severità immobile di una nuova e misteriosa essenza.
Il tema ricorrente del manichino, una sorta di essere animato-inanimato, concorre alla creazione di questo senso di austera immobilità.
In “Le Muse inquietanti” (1917), dipinto emblematico della nuova avanguardia metafisica, le Muse sono intese come delle statue-manichino, disposte su un vasto palcoscenico in assi lignee e attorniate da dei corpi geometrici colorati.
Sullo sfondo si riconoscono il Castello Estense di Ferrara e due ciminiere che non emettono alcun fumo, a conferma della mancanza di attività umana. Anche in quest’opera non vi è alcuna presenza, lo scenario è inanimato e ciò genera una sensazione di turbamento in chi osserva. .
Le Muse, le protettrici delle arti, sono immobili ed enigmatiche, stagliate in un’atmosfera rarefatta e pervasa da un silenzio inquietante, dove il tempo è sospeso. Un’atmosfera che va oltre la realtà, metafisica appunto.
Chiunque può provare a scorgere quest’essenza in ogni cosa, per godere così della poesia che essa è in grado di emanare.
Mariaelena Castellano
L’esigenza di un “ritorno all’ordine” si manifesta attraverso varie iniziative, ad esempio con la fondazione, nel 1918, della rivista “Valori Plastici” finalizzata al recupero della tradizione artistica italiana e, in particolare, ai valori relativi alla solidità volumetrica, “plastici” appunto. La rivista, inoltre, si pone come importante mezzo di divulgazione delle correnti artistiche del tempo, in particolare della pittura Metafisica.
L’esperienza di “Valori Plastici” si consuma già nel 1922, proprio quando a Milano alcuni artisti, tra cui emerge Mario Sironi, organizzano la loro prima esposizione sotto la sigla “Novecento”, riprendendo le tematiche della rivista attraverso un attento recupero degli aspetti volumetrici e chiaroscurali, nonché di un solenne e composto equilibrio compositivo, fondato su una sapiente semplificazione delle forme. La corrente prende poi il nome di “Novecento Italiano” evidenziando la vocazione a simboleggiare un linguaggio nazionale. Da qui, il passo è breve a diventare apertamente un movimento orientato al regime fascista allora imperante.
Di connotazione antifascista risulta, invece, la rivista “Corrente”, fondata a Milano nel 1938. A questo filone aderisce il pittore siciliano Renato Guttuso, autodidatta e promotore di un linguaggio realista permeato dall’impegno politico.
Tornando alle tematiche ispirate al classicismo e alla tradizione, esse risultano ampiamente condivise da molti altri artisti italiani, tra cui quelli confluiti nella tendenza del cosiddetto “Realismo magico”, improntato a un naturalismo oggettivo, ma permeato da un’atmosfera magica, con suggestivi effetti di sospensione incantata.
Al “ritorno all’ordine” si inscrive anche la fase classica di Picasso. In questi anni l’artista si ispira alle opere rinascimentali, interpretandole attraverso la sua originalità creativa e pervenendo così a una vigorosa volumetria plastica e alla centralizzazione della figura umana.