Il panorama artistico degli ultimi decenni del Cinquecento risulta caratterizzato dalla prevalenza del linguaggio manierista e dalla diffusione dei rigidi dettami della Chiesa tridentina. In questo contesto emerge l’attività di tre pittori bolognesi appartenenti a una stessa famiglia, Ludovico, Agostino e Annibale Carracci, promotori di un linguaggio fondato sulla ripresa di un attento studio del vero naturale, ispirati ai grandi maestri del classicismo cinquecentesco; Leonardo, Raffaello, Michelangelo, Correggio e gli altri artisti conosciuti durante i loro soggiorni in Toscana e a Venezia non vengono più considerati come modelli insuperabili e il loro talentuoso classicismo diventa piuttosto un esempio di ordine, equilibrio e armonia.
Intorno al 1582, i Carracci fondano a Bologna l’Accademia dei Desiderosi, rivolta a quanti sono appunto desiderosi di apprendere l’arte dei grandi del Rinascimento, aprendosi all’analisi del dato naturale, alla copia di modelli dal vero, nonché al principio del bello ideale. Qualche anno dopo, nel 1590, l’Accademia cambia denominazione e diventa l’Accademia degli Incamminati, evidenziando così la necessità di incamminarsi per provare a compiere questo difficile percorso artistico, nel quale il disegno assume un ruolo fondamentale, supportato dall’ausilio di altre importanti discipline, come la geometria, la matematica e la filosofia.
Occorre inoltre precisare che l’ambiente bolognese è fortemente segnato dall’emblematica personalità del cardinale Gabriele Paleotti, fermo garante e divulgatore dei principi tridentini. Pertanto, i Carracci assecondano tali stimoli religiosi e si dedicano alla realizzazione di tavole a soggetto sacro dal chiaro intento devozionale.
In particolare, Ludovico Carracci (1555-1619), il più anziano dei tre, ben esprime il senso di fede e pietismo, raggiungendo nelle opere della maturità effetti di gran magniloquenza e solennità.
Dai toni più dimessi e intimistici, invece, risulta la più giovanile Annunciazione (1585 circa), dove emergono i modi pacati e umili della Vergine, irradiata dal fascio di luce sprigionato da una colomba bianca, emblema dello spirito divino. Al suo cospetto, con le ali ancora spiegate e la veste definita da un saldo panneggio, si prostra l’arcangelo Gabriele, nell’atto di porgerle un ramo di gigli, come da tradizionale iconografia. Chi guarda viene attratto dall’evocazione di quest’atmosfera semplice e confidenziale, suggellata da un’accesa luminosità e da un sapiente costrutto prospettico di sapore rinascimentale.
Questa calibrata propensione ai modi classici è la base fondante dell’Accademia dei Carracci, di cui Ludovico assume la guida direzionale. Salvo brevi soggiorni in altre città, egli resta fino alla morte a Bologna, ove dirige con impegno e dedizione la scuola di famiglia.
Anche il cugino di Ludovico, Agostino (1557-1602), prende parte attiva alla gestione dell’Accademia, occupandosi delle attività educative e distinguendosi nell’attività di incisore. Risale al 1582 un suo soggiorno a Venezia durante il quale realizza incisioni dalle opere del Tintoretto e del Veronese.
L’esperienza nell’ambiente lagunare affiora in opere quali La comunione di San Girolamo, come si evince dalle movenze e dagli atteggiamenti dei personaggi o dalle architetture classicheggianti ispirate al Veronese. La scena narra uno degli ultimi momenti della vita di San Girolamo, nell’atto di ricevere l’Eucarestia. Il Santo ha un aspetto emaciato, consumato da anni di stenti e privazioni, ma l’artista riesce a conferirgli anche un saldo vigore espressivo, frutto di una gran forza d’animo.
Anche in questo caso l’opera si presta a intenti devozionali e pietistici e l’osservatore è reso partecipe di un momento solenne, come se potesse prenderne parte anch’egli, confondendosi tra la folla degli astanti, nel suggestivo gioco armonico di luci e colori.
Fratello minore di Agostino, Annibale Carracci (1560-1609) emerge da subito per il gran talento espressivo, come attesta l’invito ricevuto dal cardinale Odoardo Farnese, che nel 1595 lo vuole a Roma per la decorazione del suo palazzo di famiglia.
Prima di trasferirsi nella capitale, negli anni trascorsi a Bologna, Annibale realizza diversi lavori, operando sia in collaborazione con Ludovico e Agostino, sia in autonomia.
Il suo linguaggio rivela da subito un’elegante raffinatezza formale, coniugata alla ricerca del dato naturale e a una colta idealizzazione.
Quando giunge a Roma è dunque un artista già completo e il suo talento è desinato a crescere portandolo a risultati di gran levatura. A lui si aggrega, per i primi tempi, anche il fratello Agostino, che gli presta collaborazione nella prima importante commissione: la decorazione di alcuni ambienti di Palazzo Farnese. Inizialmente Annibale è incaricato di affrescare il camerino, ovvero una sorta di studio privato, dove trovano posto allegorie e soggetti mitologici. In particolare, nella parte centrale del soffitto emerge la tela con Ercole al bivio (oggi esposta a Napoli, nel Museo di Capodimonte), in cui sono ben palesi gli influssi delle opere romane di Michelangelo e Raffaello. Si noti, ad esempio, la possenza michelangiolesca di Ercole, adagiato su di una roccia, con la sua inseparabile clava, colto nel momento di scegliere quale percorso di vita intraprendere. Alla sua destra la Virtù gli indica una strada impervia, tutta in salita, verso un’altura dove si scorge Pegaso, il cavallo alato, simbolo dell’ispirazione divina e della vita spirituale; dall’altro lato appare, invece, una donna voluttuosa che incarna i vizi umani e difatti tenta l’eroe indicandogli una via più facile, legata ai piaceri terreni, ma priva di alcun valore.
Qualche anno dopo, tra il 1598 e il 1600, sempre in Palazzo Farnese, Annibale si cimenta con il suo capolavoro: la decorazione della volta della Galleria(*),opera dal gran spessore artistico, che inaugura il nuovo secolo con un linguaggio magniloquente, ricco di citazioni classiche modulate da una visione più veritiera e naturalistica e da una felice vena narrativa.
Terminata la volta, Annibale si dedica a diverse commissioni private e religiose, spesso rivelatrici del suo temperamento incline alla malinconia. Le fonti lo descrivono come schivo e taciturno, ben distante dalla vita fastosa della città dei papi.
Muore nemmeno cinquantenne, con ogni probabilità a causa dei disturbi mentali di cui soffriva da diversi anni.
A divulgare il suo linguaggio penseranno i suoi giovani collaboratori, che da subito comprendono e condividono la portata innovativa del naturalismo carraccesco. Tra questi, emergono Guido Reni, Domenichino, Lanfranco e il Guercino.
Guido Reni (Bologna 1575-1642)
Guido Reni si pone tra i primi e più proficui rappresentanti dell’accademia bolognese. Oltre alla sua città natale, opera anche a Roma ed effettua un soggiorno a Napoli, distinguendosi ovunque come uno dei principali pittori del tempo.
Il suo linguaggio parte da una personale interpretazione del naturalismo dei Carracci, alimentata da un accurato studio delle opere di Raffaello. Inoltre, Reni non è esente dalle intense suggestioni della contemporanea pittura del Caravaggio e la sapiente rielaborazione di tali tendenze gli consente man mano di pervenire a una sua autonoma cifra stilistica. Col tempo, egli si apre anche a un’elegante vena barocca, riscontrabile nelle studiate luminescenze e nei concitati dinamismi delle scene, così come nella vocazione al gusto teatrale del tempo, particolarmente evidente in alcune pose magniloquenti e nei sofisticati effetti dei panneggi di drappi e vesti.
L’artista pone, poi, grande attenzione ai sentimenti umani e, attraverso i suoi personaggi, svela una vasta gamma di stati d’animo, spesso debitrice del potente pathos caravaggesco.
Si osservi l’animosa espressività del dipinto La strage degli innocenti, risalente al 1611. L’opera racconta l’episodio evangelico del massacro di neonati ordinato dal re Erode per liberarsi di Gesù. L’evento drammatico, reso con gran impeto emotivo, si stempera nella sapiente padronanza compositiva dell’artista, votata a un perfetto equilibrio formale: la scena è ben calibrata, come rivela l’accurata regolarità simmetrica.
Qualche anno dopo, tra il 1613 e il 1614, Guido Reni realizza una delle sue opere più note, ovvero l’affresco dell’Aurora, dipinto sulla volta del Casino dell’Aurora Pallavicini, a Roma.
La scena viene inserita in una cornice, in modo da sembrare un quadro riportato, come da tradizione carraccesca e mancano, dunque, gli scorci illusionistici destinati a simulare una veduta dal basso. I personaggi raffigurati si susseguono con garbo ed eleganza, tra le chiare luminescenze ambrate del far del giorno; il corteo si apre con la figura maestosa dell’Aurora che fluttua, leggiadra, nel cielo limpido; dietro di lei, l’astro del mattino, con una torcia accesa, precede il carro del dio del sole, Apollo, attorniato da aggraziate figure femminili simboleggianti le ore della giornata. Sullo sfondo, s’intravede un paesaggio marino in cui emerge tutta la superba vena colorista di Reni.
Negli anni della maturità, questa sua mirabile maestria nell’utilizzo dei colori si coniuga alla sapiente stesura di preziose luminescenze argentee, perdendo tuttavia in quanto a consistenza materica e corposità. Permane, invece, la costante propensione a un perfetto equilibrio tra bellezza ideale e bellezza naturale, a suggello della sua nuova concezione di classicità.
Domenichino (Bologna 1581 – Napoli 1641)
Anche Domenico Zampieri, detto il Domenichino probabilmente per la bassa statura, si forma nell’ambiente accademico bolognese, per poi approdare a un originale eclettismo in cui la semplicità compositiva viene arricchita da un’intima vena sentimentale.
Tra le sue opere emerge il ciclo di affreschi della Cappella di Santa Cecilia nella Chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma, raffiguranti Storie della Santa. E´ qui evidente l’ispirazione al classicismo raffaellesco delle Stanze del Vaticano, da cui riprende anche l’elegante partitura architettonica delle scene, dipinta con gran maestria. Gli affreschi di Santa Cecilia ben esprimono l’ideale di bellezza classica a cui ambisce il linguaggio dell’artista, proponendo così un’arte d’evasione, destinata a elevare l’uomo dagli affanni e dalle pene della quotidianità.
Giovanni Lanfranco (Parma 1582 – Roma 1647)
Allievo dei Carracci, Giovanni Lanfranco coniuga il naturalismo classicista all’influsso caravaggesco, rivelando al contempo precoci anticipazioni del nascente linguaggio barocco. Già giovanissimo si trasferisce a Roma, al seguito di Annibale, dove riceve svariate commissioni.
La sua pittura si volge in particolare ai modelli emiliani del Correggio, da cui recupera gli arditi effetti prospettici, come rivela l’Assunzione della Vergine dipinta tra il 1625 e il 1628 per la cupola della Chiesa di Sant’Andrea della Valle.
Qui Lanfranco rivela un tratto libero e disinvolto, segnato da un’efficace resa dinamica dello spazio. La composizione è difatti dominata da un vorticoso moto ascensionale: le figure, disposte in cerchi concentrici definiti da fasci di nuvole, sono avvolte e sfumate da un’intensa luminosità aurea che enfatizza l’audacia dell’effetto illusionistico, già proiettato allo spirito decorativo del Barocco.
La fama procuratagli dall’Assunzione di Sant’Andrea lo porta a Napoli, dove si trasferisce nel 1634 restandovi fino al 1646. Qui Lanfranco riceve importanti commissioni che gli consentono di portare a piena maturità la sua formazione artistica esercitando una forte influenza sui pittori locali. Tra i prestigiosi lavori realizzati negli anni partenopei si ricordano la decorazione della cupola del Duomo di San Gennaro e i cicli di affreschi della Certosa di San Martino e della Chiesa del Gesù Nuovo.
Il Guercino (Cento 1591 – Bologna 1666)
La formazione di Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino, oltre al dominante influsso del naturalismo carraccesco, si apre a numerosi altri stimoli, attingendo in particolare dalle esperienze del cromatismo veneto. L’artista, inoltre, non è esente dal fascino del realismo caravaggesco, svelato anche dagli intensi effetti luministici, se pur privati della funzione costruttiva utilizzata dal Merisi.
Ne deriva un linguaggio saldo e ben definito, che man mano si apre a visioni sempre più innovative e originali, che fanno del Guercino uno degli indiscussi portavoce del classicismo barocco italiano.
I suoi numerosi disegni, molto apprezzati dai collezionisti del tempo, rivelano il tratto disinvolto e la vigorosa animosità delle opere pittoriche.
Si osservi, ad esempio, questo singolare autoritratto dal talentuoso segno grafico, dinamico e altamente espressivo.
Pare il soprannome del pittore derivi da “guercio”, cieco, in riferimento a un suo difetto dell’occhio destro, e ci si chiede se proprio da tale conformazione difettosa non provenga in parte la sua originale impostazione degli spazi, così ben dotati di audaci scorci prospettici e di ariosi effetti illusionistici, potenziati da un uso magistrale del colore e da sapienti giochi chiaroscurali. Nei suoi dipinti le scene, spesso concitate, sono pervase da una dinamica vitalità, come si evince nella nota Aurora dipinta nel 1621 per la volta del Casino Ludovisi a Roma, dove l’artista soggiorna per tre anni.
La sua carriera prosegue, quindi, nel natio territorio emiliano, pervenendo ad alti esiti artistici dove la vivida naturalezza delle immagini dialoga con la spettacolarità degli effetti spaziali.
LA PITTURA DI GENERE
Il naturalismo classico di Annibale si volge anche a originali sperimentazioni, dando così avvio a nuovi filoni pittorici.
Già nella produzione giovanile, prima di approdare a Roma, egli dà voce alla cosiddetta pittura di genere, ovvero alla raffigurazione di scene di vita quotidiana. Si osservino, ad esempio, i due dipinti raffiguranti una Macelleria, entrambi realizzati intorno al 1583. Le due opere narrano in modo accurato l’organizzazione lavorativa delle macellerie e l’occhio attento dell’artista rende con dovizia di particolari un ambiente ben conosciuto, poiché i suoi cugini, fratelli di Ludovico, sono macellai. i personaggi appaiono dignitosi e compunti, assumono pose eleganti, suggellate da una pennellata fluida, che contribuisce alla resa spontanea delle scene.
Anche il noto dipinto del Mangiafagioli (1584-85), in cui un popolano consuma il suo umile pasto, s’inserisce nel filone della pittura di genere. Il primo piano ravvicinato e l’espressione sorpresa dell’uomo, colto nel momento in cui si sta portando il cucchiaio alla bocca, donano all’immagine un piacevole effetto di spontaneità, come una sorta d’istantanea fotografica.
Il mangiatore di fagioli emerge in questo contesto semplice e volutamente spoglio, evidenziato dalla consistenza pastosa dei colori e dalla freddezza della luce proveniente dalla finestra: nulla scalfisce l’austero senso di dignità di questo personaggio, reso con una mirabile vivezza espressiva.
IL PAESAGGIO IDEALE: DA ANNIBALE CARRACCI AI FRANCESI NICOLAS POUSSIN E CLAUDE LORRAIN
Nella sua produzione più tarda, Annibale si apre ai soggetti naturalistici, contribuendo all’origine della pittura paesaggistica. A lui guarderanno, in seguito, i grandi paesaggisti francesi Poussin e Lorrain, che trarranno ispirazione, in particolare, dall’atmosfera soffusa e dal lirismo espressivo della Fuga in Egitto, una delle lunette dipinte intorno al 1603 per la cappella di famiglia del Palazzo del cardinale Aldobrandini, a Roma.
La scena pone l’episodio evangelico in primo piano, ma a fungere da protagonista è la vasta e armoniosa raffigurazione del paesaggio circostante, idealizzato secondo i canoni della bellezza classica dall’abile regia compositiva del maestro.
Nelle sue vedute, Annibale non dipinge la natura com’è, piuttosto la perfeziona assecondando un ideale di equilibrio armonico, dove i graduali passaggi cromatici e il digradare della nitidezza delle forme creano un senso di ariosa profondità, mentre l’impostazione scenografica degli alberi in primo piano funge da quinta prospettica guidando l’osservatore verso il centro del dipinto, verso la luminosità azzurrognola del cielo.
La strada tracciata da Annibale, come già anticipato, verrà perseguita anche dai due pittori francesi Nicolas Poussin e Claude Lorrain, entrambi attivi a Roma nel Seicento. Il primo volge la sua ricerca verso una direzione più narrativa, animando i suoi paesaggi con eventi tratti da illustri scene storiche o mitologiche; le composizioni sono ben equilibrate, ordinate in una visione calibrata segnata dai toni magniloquenti e dalle pose teatrali dei personaggi. Nei dipinti di Lorrain, invece, le scene narrate sono ridimensionate, sovrastate dall’immensità della natura. Il paesaggio proposto dall’artista nasce da una presa diretta della realtà, come rivelano le intense luminescenze del sole, nonché le accurate descrizioni curate nei minimi dettagli; a questa impostazione iniziale fa poi seguito una rielaborazione personale nutrita da citazioni classiche e invenzioni fantasiose, confluendo così in un’originale visione classicista.
La decorazione della Galleria Farnese (1598-1601) – Roma
La monumentale residenza dei Farnese, progettata da Antonio da Sangallo il Giovane e portata a termine da Michelangelo, è uno degli edifici più rinomati della Roma cinquecentesca.
Al suo interno, tra i vari ambienti di rappresentanza, spicca la Galleria, un salone stretto e lungo, adibito a luogo espositivo delle prestigiose collezioni di antichità raccolte negli anni dai Farnese.
Risale al 1598 l’avvio della sontuosa decorazione ad affresco di questo spazio, curata con gran perizia tecnica da Annibale Carracci, al cui seguito operano il fratello Agostino e due giovani garzoni della bottega dei Carracci, Lanfranco e Domenichino.
Si procede così alla realizzazione di un vasto e complesso programma iconografico, ispirato a tematiche mitologiche e incentrato sugli amori degli dei. Tale scelta coniuga la rievocazione dell’antico all’esaltazione dell’amore e della bellezza classica e sembrerebbe interpretabile in chiave celebrativa, in occasione del matrimonio di Ranuccio Farnese, avvenuto nel 1600; tuttavia, alcuni studiosi non sono propensi a supportare quest’ipotesi e svincolano l’iconografia dall’evento delle nozze.
La gran mole di disegni preparatori svela l’accurata fase progettuale di un lavoro che s’impone da subito come il mirabile esempio di un’originale sintesi del classicismo cinquecentesco. Annibale studia meticolosamente i modelli antichi, per poi rielaborarli secondo una visione più vicina al “vero naturale”, in modo da conferire all’opera una più veritiera spontaneità, badando bene a non rinunciare all’esigenza di idealizzazione.
Inoltre, l’ariosa luminosità e il potente effetto illusionistico dei dipinti creano una suggestiva dilatazione dello spazio reale della galleria: pittura e architettura si fondono tra loro in un gioco virtuosistico che non manca di coinvolgere ed emozionare l’osservatore.
L’artista canta gli amori divini inserendo le varie scene in un’articolata partizione di sfarzose cornici e vasti fregi decorati da finte statue marmoree e da finti rilievi bronzei. I dipinti appaiono dunque come dei quadri riportati e la Galleria risulta così sormontata da un’elegante quadreria dominata, al centro, dall’affresco del Trionfo di Bacco e Arianna, dove Annibale mette in scena un festoso corteo, popolato da satiri e amorini, inneggiando alla potenza del sentimento dell’Amore, capace addirittura di condizionare la vita degli dei, in riferimento alla vicenda amorosa di Bacco e Arianna.