Figlia di secondo letto di un fotografo, la pittrice messicana Frida Kahlo (1907- 1954) nella sua breve quanto intensa esistenza, si pone tra le personalità artistiche di maggior rilievo nel variegato panorama internazionale della prima metà del Novecento.
La sua opera, singolare e appassionata, è stata riscoperta e portata alla ribalta dalla critica femminista negli anni Ottanta del secolo scorso, per conferire così alla sua memoria il meritato apprezzamento anche al di fuori dei confini messicani. E per comprendere l’opera della Kahlo è proprio dalle sue radici messicane che occorre partire, dalla sua identificazione con la patria, espressa in quel continuo e fiero recupero di tradizioni, usi e costumi; un recupero ravvisabile tanto nel suo modo di porsi – nel vestire con abiti tipici del suo popolo, nell’impreziosire e personalizzare la propria abitazione con arredi e stoffe dell’artigianato locale – quanto nelle scelte artistiche legate alla sua produzione. I dipinti di Frida, infatti, sono caratterizzati da un costante riferimento al Messico, dall’ispirazione a oggetti e opere artistiche precolombiane alla scelta dei colori, accesi ed espressivi; dal richiamo agli ex-voto della cultura popolare alla raffigurazione di flora, fauna e costumi locali. Del resto, la pittrice s’immedesimò talmente nel culto del proprio paese, da posticipare il suo anno di nascita al 1910, l’anno della Gloriosa Rivoluzione, evento che segnò l’inizio di un nuovo corso per il popolo messicano.
Quest’attenzione ai valori legati al passato precolombiano e all’esigenza di una cultura nazionale che riprenda la tradizione indigena s’inseriscono nell’orientamento politico dei primi decenni del Novecento e permeano l’arte di Frida Kahlo, definita appunto come tipicamente messicana.
Altro aspetto fondamentale nella sua opera, dai caratteri fortemente autobiografici, è l’aver lasciato confluire in essa tutte le sofferenze e i tormenti di una vita difficile e travagliata. A sei anni, Frida è affetta da poliomielite e una gamba resterà più esile e corta, procurandole un disagio estetico, che tenterà di nascondere indossando le lunghe gonne della tradizione messicana. Alle derisioni negli anni dell’adolescenza – “Frida gamba di legno”- seguiranno le ammirazioni per il suo originale aspetto esotico e per quell’accesa energica personalità che la contraddistinguerà sempre, nel suo difficile ruolo di donna pittrice e moglie di un celebre artista. Alla fine degli anni Venti la donna conosce, infatti, il già rinomato muralista Diego Rivera, di ventuno anni più grande di lei, con cui si unirà in matrimonio, dando inizio a una tormentata relazione che, tra contrasti e riavvicinamenti, l’accompagnerà per tutta la vita.
«Le tele rivelavano una straordinaria forza espressiva. (…) Trasmettevano una sensualità vitale, arricchita da una capacità d’osservazione ricca di sensibilità, ma anche spietata. Capii subito che si trattava di una vera artista», queste le parole di Rivera, dopo aver visto i dipinti che la giovane gli aveva portato ad esaminare.
Frida si avvicina a Diego e agli ambienti artistici politicamente impegnati, in seguito al suo maturato interesse a dedicarsi alla pittura; una scelta avvenuta nel 1925, quando è costretta a un lungo periodo di convalescenza, per essersi ferita gravemente in un drammatico incidente stradale. Quest’evento cambia in modo determinante la vita della donna, che nel corso degli anni subirà ben trentatré interventi chirurgici e dovrà imparare a gestire i dolori, spesso lancinanti, procurati da questo calvario fisico. Si rifugia così nell’arte e trova nella pittura un’attività che può tenerla impegnata in quei lunghi periodi di riposo forzato; ma ben presto dipingere diventa per lei molto più di un intrattenimento: nella sua opera Frida Kahlo riversa tutta sé stessa, le speranze e le illusioni, le angosce e i tormenti, l’amore per Diego e per il folklore messicano.
Le tele diventano così spazi parlanti che narrano i pensieri, i ricordi e le paure dell’artista, attraverso una potente enfasi visionaria, nutrita delle più fantasiose allucinazioni che le hanno fatto guadagnare apprezzamenti da parte dei surrealisti. Eppure l’opera della Kahlo non si può definire surrealista, perché in nessun quadro prende del tutto le distanze dalla realtà: ciò che può essere interpretato come un folle delirio onirico rientra invece a far parte integrante del suo angosciante vissuto.
Così, la sofferenza scaturita dai frequenti aborti, dovuti all’impossibilità di portare a termine una gravidanza nelle sue condizioni fisiche, si riversa in opere come “Henry Ford Hospital”, dove si raffigura nuda e sanguinante, in un letto d’ospedale troppo grande per il suo corpo minuto, che anziché trovarsi in una corsia medica, campeggia in una desolante ambientazione di zona periferica industriale, aumentando dunque l’inquietante senso di solitudine.
Le raffigurazioni simboliche dell’evento, congiunte a lei attraverso delle corde rosse, simili a vene, ne raccontano il dramma: un feto ingrandito a dismisura, come a sottolineare le grandi speranze riposte in quella nascita stroncata; un modello anatomico e una parte di scheletro, entrambi relativi alla parte inferiore del tronco umano, per simboleggiare le cause dell’aborto; l’orchidea violetta, il fiore che le ha portato Diego durante la visita all’ospedale; un macchinario che probabilmente allude alla necessità di funzionamento degli ingranaggi tecnici, con un parallelo del suo mal funzionante bacino; infine, una lumaca, ossia la logorante lentezza dell’aborto.
In questa narrazione, Frida rivela la sua esperienza da un punto di vista essenzialmente emotivo, senza condizionamenti dettati da una raffigurazione realistica. Quest’esigenza pervade tutta la sua opera e si riscontra anche quando dipinge la travagliata storia con Diego Rivera e la sua difficoltà di essere la moglie di un celebre artista, in bilico tra la necessità di mantenere un ruolo subalterno e l’esigenza di essere indipendente.
Una relazione difficile, questa, scandita sin dall’inizio dai continui tradimenti del marito, anche con sua sorella, Cristina Kahlo. Riesce a lasciarlo, ma non in modo definitivo; i due, dopo una separazione, si risposano. Frida non può spezzare quel filo che la tiene legata a lui, e così la loro unione continua, se pur entrambi tessono altre relazioni. Un rapporto altalenante, segnato dalla fierezza individuale di entrambi e, nello stesso tempo, dal forte bisogno nutrito l’uno dell’altra.
“Diego nei miei pensieri” è il significativo titolo dell’autoritratto dipinto nel 1943, dove sulla fronte della donna, nella caratteristica giuntura marcata delle due sopracciglia, trova posto la raffigurazione del marito, proprio per esprimere il suo sentimento ossessivo per lui.
In molte altre tele Frida dà spazio a Diego, mentre una copiosa parte della sua produzione è occupata dall’autoritratto e dunque dall’esigenza di raffigurare sé stessa, sia perché la solitudine in cui spesso riversa la porta a chiudersi in lei, sia per il tentativo di conoscersi, ma anche per ricrearsi e reinventarsi, nell’arte, come nella vita. Si autoritrae per indagare sulla sua complessa personalità, scandita da una ricorrente dualità di donna ora fiera, altera e forte, ora malinconica e sofferente. Anche qui si scorge un chiaro riferimento alla tradizione messicana, all’antica mitologia azteca della lotta incessante tra il dio del sole e quello delle tenebre, uno scontro necessario che garantisce l’equilibrio nella natura.
In “Albero della speranza, sii solido” del 1946, Frida si ritrae in due diverse condizioni. A sinistra appare di spalle, di nuovo in un letto d’ospedale, dove ha subito l’ennesimo intervento chirurgico, che stavolta le ha lasciato delle profonde cicatrici, riecheggianti nelle vistose fenditure della crosta terrestre, riscaldate da un sole bruciante, che secondo le credenze azteche, si nutre del sangue delle vittime umane e viene dunque abbinato al corpo sofferente della donna. Un brano di toccante malinconia, dove se pur manchi l’espressività di un volto, il dolore è suggerito dallo stringersi intorno al lenzuolo attorcigliato, dai capelli sciolti e cadenti, come a sottolineare il senso di abbandono, e dai due tagli sanguinanti che ne solcano la pelle e, insieme, l’animo. È una Frida rinata e colma di speranza, invece, quella che appare a destra, vestita in modo elegante e di rosso, il colore della passione. Regge in mano uno stendardo con su scritto il motto che dà titolo all’opera, mentre sullo sfondo, il giorno lascia posto alla notte, dominata da una grande luna, simbolo della femminilità.
In questo dipinto emerge, dunque, tutta la complessa trama dell’esistenza di una donna coraggiosa quanto impaurita, temeraria quanto sofferente, che nel susseguirsi di momenti difficili, alternati a mirabili resistenze al dolore, si è misurata con gli eventi, li ha conservati nitidi nella memoria, così come nelle immagini realizzate, riuscendo ad andare avanti nel suo percorso con autorevolezza e caparbietà, in un continuo, intenso ed emozionante, intreccio di vita e arte.
Dipinge fino alla fine dei suoi giorni, anche quando le condizioni fisiche si aggravano, anche quando contrae una polmonite che le sarà fatale. La pennellata diventa meno precisa e di ciò ne risente la qualità dei dettagli, ma l’alta carica espressiva e la mirabile verve creativa permangono, in quell’inesauribile processo di osmosi tra il sentire e il fare, che sin dagli esordi ha nutrito tutto il suo fiero operato.
Mariaelena Castellano