L’espressione tarda antichità indica il passaggio dall’età greco-romana al lungo periodo storico del Medioevo.
In questa fase di transizione, che va dalla fine del II al VI secolo d.C., gli ideali del linguaggio classico cedono il passo a una visione dell’arte fondata su nuovi criteri interpretativi della realtà e sull’esigenza di una maggiore immediatezza comunicativa.
Per comprendere appieno queste dinamiche è necessario fare riferimento al complesso quadro storico del tempo: in età tardo antica si verifica l’evento epocale della caduta dell’Impero Romano d’Occidente(*), avvenuta nell’anno 476 d.C., ma preannunciata da un lungo periodo di crisi. Già verso la fine del II secolo d.C., infatti, il succedersi di imperatori poco autoritari, incapaci di gestire il loro vasto dominio territoriale, ha avviato un rapido processo di disgregazione dell’unità politica romana.
A questa situazione di debolezza concorrono, poi, le migrazioni delle popolazioni barbariche, che penetrano a poco alla volta nei confini del Reno e del Danubio, contribuendo allo sfaldamento della parte occidentale dell’Impero.
La parte orientale, invece, è destinata a sopravvivere per tutto il Medioevo e oltre, fino a quando nel 1453 cadrà nelle mani dei Turchi Ottomani.
In Oriente come in Occidente, le correnti artistiche che si diffondono in questi secoli riflettono le mutate esigenze scaturite da un clima di paure e incertezze.
Gli stilemi classici, segnati dal naturalismo e dalla ricerca del bello, appaiono sempre più inadeguati. Adesso a prevalere è la volontà di esprimere la spiritualità, la riflessione, ma anche la sofferenza. Ciò spiega la rinuncia agli ideali di bellezza, che avevano invece caratterizzato le modalità espressive dell’antichità greca e romana.
In questa fase germogliano le prime istanze dell’estetica medievale, contraddistinta da una marcata tendenza a simboleggiare concetti e significati attraverso la raffigurazione di forme schematiche, sempre più svincolate da una visione verosimile.
Per intendere tali sviluppi, va precisato che l’arte romana, sin dai suoi esordi, ha presentato due anime: una ufficiale, aulica, nutrita dagli influssi ellenici e destinata alle committenze più prestigiose, e una plebea, più schietta e genuina, legata alla classe popolare e vicina alle radici culturali italiche ed etrusche.
Il linguaggio plebeo coesiste in silenzio, per diversi secoli, accanto alle opere più raffinate e impegnative richieste dalle classi aristocratiche.
I ceti popolari, invece, prediligono un operato artigianale dai toni modesti ma dall’espressività marcata, con una spiccata tendenza a una visione meno naturalistica e più simbolica, anticipando uno dei caratteri fondamentali dell’arte medievale.
L’anima plebea, in principio rimasta ai margini, emerge gradualmente, fino a insinuarsi anche nell’ambito delle più prestigiose committenze ufficiali, come attestano le decorazioni scultoree di opere monumentali quali la Colonna di Marco Aurelio e l’Arco di Costantino(*).
Per quanto concerne l’ambito architettonico, inoltre, si riscontra un’accentuata fastosità, ben evidente nel colossale Palazzo di Diocleziano a Spalato, nel complesso sacro di Heliòpolis, nella Basilica di Massenzio e nelle Terme di Caracalla a Roma: edifici appariscenti, le cui rovine giganteggiano ancora oggi, memori di quel desiderio di contrastare con la propria imponente grandiosità l’inarrestabile declino verso cui si erano ormai avviate le sorti dell’Impero.
Mariaelena Castellano
PER SAPERNE DI PIÙ…
(*) LA CRISI DELL’IMPERO ROMANO
Tra il 161 e il 180 d.C., sotto la guida di Marco Aurelio, l’imperatore filosofo dotato di gran levatura morale e intellettuale, appaiono i primi segnali di fragilità dell’Impero, dovuti in particolare alle sempre più frequenti devastazioni dei popoli barbari stanziati al di là dei confini territoriali.
Alla morte di Marco Aurelio sale al potere il figlio Commodo, di indole ben diversa, concentrato sulla sua persona e lontano dalle doti politiche paterne. Pertanto, la crisi imperiale si aggrava e continua anche dopo la morte di Commodo, assassinato in una congiura, nel 192 d.C.
Diversi pretendenti aspirano al trono e scatenano una guerra civile che aggrava una situazione già precaria. A prevalere è il governatore della Pannonia, Settimio Severo (193-211 d.C.), nativo dell’odierna Libia, con il quale i territori periferici assumono maggiore considerazione.
Una linea politica, questa, ripresa dal figlio di Settimio, Caracalla (211-217 d.C.), che nel 212 d.C. estende la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Impero.
Caracalla, così come i suoi due successori Elagabalo e Alessandro Severo, muore vittima di una congiura.
Nel 235 d.C., conclusasi la dinastia dei Severi, ha inizio una fase di crisi definita di anarchia militare, che si protrarrà fino al 284 d.C. In questi decenni i generali vengono acclamati imperatori dall’esercito, che stabilisce a suo piacimento anche la fine del mandato. Ne deriva una grande instabilità politica segnata dal rapido succedersi di Cesari dotati di forze e strategie militari, ma privi di carisma imperiale.
Nel 284, l’ascesa al potere di Diocleziano determina una radicale riorganizzazione dello Stato.
Con l’istituzione della tetrarchia, Diocleziano stabilisce la partizione del potere imperiale, diviso tra due Augusti e due Cesari a essi subordinati. Inoltre, la decisione dell’imperatore di risiedere in Oriente, a Nicomedia, dà inizio al lento e inesorabile declino di Roma.
L’importanza crescente assunta dalla parte orientale dell’Impero è poi confermata dalla scelta dell’imperatore Costantino (306-337) di fondare una nuova capitale sulle rive del Bosforo, lontano dalle ingerenze del Senato e dell’aristocrazia romana, in una posizione ben difendibile e al tempo stesso favorevole al controllo dei transiti tra Oriente e Occidente. Così, nel 330, con una solenne cerimonia, l’antica colonia greca di Bisanzio, assume il nome di Costantinopoli.
Inoltre, Costantino pone termine all’ordinamento tetrarchico, che del resto si era da subito mostrato difficilmente applicabile e, sconfitto l’altro Augusto, Massenzio, con la battaglia di Ponte Milvio (312 d.C.), resta unico imperatore.
Tuttavia, alla sua morte, nel 337 d.C., l’Impero è diviso tra i suoi tre figli. L’intesa tra gli eredi è destinata a durare poco e ne segue una cruenta lotta per il potere, in cui ha la meglio Costanzo II, che regna dal 350 alla sua morte (361). Gli succede suo cugino Giuliano l’Apostata (361-363).
In questi anni le invasioni barbariche dilagano: Burgundi, Franchi, Vandali, Alemanni e Goti avanzano lungo i corsi del Reno e del Danubio e gli imperatori Valente (364-378) e Teodosio (378-395) non riescono a gestire questa minaccia.
Nel 395, alla morte di Teodosio, l’Impero Romano è definitivamente diviso tra i suoi due figli in Impero Romano d’Occidente e Impero Romano d’Oriente: ad Arcadio spetta l’Oriente, a Onorio l’Occidente.
Mentre Arcadio porta avanti una politica autonoma, Onorio accetta la tutela del generale vandalo Stilicone.
Morto Stilicone, i Barbari dilagano nella parte occidentale dell’Impero.
Nel 410 i Visigoti di Alarico piombano su Roma e la saccheggiano. Quest’evento suscita un gran scalpore tra i contemporanei, ma nel 455 la città subisce una devastazione ancora più grave, a opera dei Vandali di Genserico.
Si giunge così all’anno 476, quando Odoacre, re dei Goti, depone Romolo Augustolo, ultimo imperatore romano d’Occidente che -ironia della sorte- porta il nome del primo re e del primo imperatore di Roma.
DENTRO L'OPERA
LA COLONNA DI MARCO AURELIO – Roma (176-192 d.C.)
Nel 176 d.C., per celebrare le vittorie dell’imperatore Marco Aurelio sul Danubio, si erige una nuova colonna coclide nel Campo Marzio, con chiara ispirazione alla Colonna di Traiano, come rivela la narrazione a rilievo che avvolge l’intero fusto con andamento spiraliforme.
Anche la Colonna Aureliana, come la Traiana, in origine risulta sormontata dalla statua bronzea dell’imperatore, poi sostituita da quella di un santo.
In entrambi i casi le scene scolpite esaltano le imprese belliche dell’imperatore: Traiano contro i Daci, Marco Aurelio contro Germani, Marcomanni, Quarti e Sarmati.
Tuttavia, rispetto al monumento traianeo qui il rilievo risulta decisamente più marcato, con singolari effetti chiaroscurali definiti anche dal frequente uso del trapano, che solca i contorni delle figure.
Le immagini sono più affollate e si evince una frequente ripetitività di figure e gesti; la semplificazione delle forme consente, poi, una più immediata comunicazione, spesso incentrata sul personaggio di Marco Aurelio, raffigurato perlopiù in posizione frontale e al centro delle composizioni, in modo da ribadirne l’importanza simbolica.
La sequenza del racconto non segue più un ordine cronologico, giacché si preferisce inserire gli eventi più famosi lungo la parte bassa del fusto, per sancirne una maggiore visibilità.
Inoltre, rispetto alla Colonna di Traiano, quella Aureliana presenta una visione più cruenta della guerra rinunciando al valore del rispetto per i vinti e all’umana pietà.
Accanto alla ferocia dei combattimenti trova posto anche la rappresentazione del soprannaturale. Si tratta di un atteggiamento nuovo, che chiama in causa quei fatti irrazionali e inspiegabili, riferibili alla diffusione a Roma dei culti orientali e della religione cristiana.
Riguardo l’attribuzione, si è concordi nel ritenere che l’opera in esame sia stata probabilmente realizzata da più maestri, tutti legati al filone artistico plebeo.
L’ARCO DI COSTANTINO – Roma (312-315/16)
Nel 312 il Senato romano, per celebrare la battaglia di Ponte Milvio, ordina l’innalzamento di un arco trionfale dedicato all’imperatore vittorioso, Costantino.
L’arco presenta tre fornici sormontati da un grande attico e scanditi da colonne corinzie collocate su alti piedistalli. Può considerarsi tra i più antichi esempi di edificio “di spoglio”, poiché risulta costituito da elementi recuperati da costruzioni preesistenti di età traianea, adrianea e aureliana, distrutte appositamente per la riutilizzazione del materiale.
I fregi scolpiti a rilievo per magnificare le imprese di Costantino, invece, risultano realizzati ex novo secondo un gusto plebeo, a dimostrazione della predilezione per un linguaggio ormai non più subalterno al gusto ufficiale.
Le lastre sono collocate sui due fornici minori e si prolungano sui lati brevi avvolgendo l’intero monumento.
Si noti, in particolare, l’episodio della Liberàlitas dell’imperatore: al centro, la figura immobile e solenne di Costantino assiso in trono sovrasta sulle altre più minute, secondo i canoni rappresentativi di una gerarchia dimensionale.
I riferimenti prospettici vengono meno e i personaggi sono disposti alla destra o alla sinistra dell’imperatore; anche i popolani, che invece dovrebbero essere posizionati di fronte al trono, si allineano alla tipologia compositiva priva di effetti di profondità e si parla, pertanto, di prospettiva ribaltata.
Con i rilievi dell’Arco di Costantino prende avvio un linguaggio fondato su una maggiore esigenza comunicativa, a discapito di quella visione naturalistica, che aveva invece permeato l’arte classica.