La civiltà longobarda viene meno sul finire dell’VIII secolo, eclissata dal sopraggiungere dei Franchi capeggiati da Carlo Magno(*), che nel 774 si proclama “re dei Franchi e dei Longobardi”.
Il desiderio di questo sovrano di rivivere i fasti e le glorie dell’antica Roma pone le premesse al massiccio ampliamento territoriale del regno franco, fino al costituirsi di una vasta realtà imperiale: il “Sacro Romano Impero”.
Ne consegue una riorganizzazione dell’assetto politico e sociale, ma anche una significativa ripresa delle attività artistiche e culturali, nota come rinascita carolingia. Con questo termine, entrato in uso nel XIX secolo, si indica tutto ciò sia riferibile alla dinastia di Carlo Magno.
La produzione artistica carolingia è caratterizzata dall’intensa emulazione sociale, politica e culturale manifestata nei confronti del passato romano. Ne deriva un linguaggio che fonde gli originari stilemi franchi a un’austera monumentalità classica, con aperture non trascurabili ai modi bizantini.
Il riferimento all’arte romana si può ben cogliere nell’architettura, segnata al contempo anche dall’introduzione di nuovi elementi, come il westwerk(*) e il doppio coro.
Inoltre, risale a questo periodo il primo sviluppo della cripta, ambiente sotterraneo ricavato negli edifici religiosi in corrispondenza del presbiterio oppure, talvolta, esteso sotto l’intero corpo della chiesa. In genere la cripta è adibita a una funzione funeraria o di custodia di sacre memorie e reliquie.
Nel Palazzo di Aquisgrana, sede del potere imperiale, la presenza di episodi di spoglio da edifici di età tardo antica rivela la volontà carolingia di dialogare con le vestigia della tarda romanità.
Inoltre, la planimetria centrale della Cappella Palatina, annessa alla struttura, è una chiara derivazione dalla ravennate Chiesa di San Vitale, richiamata anche dal preziosismo dei mosaici dorati del rivestimento interno che, se pur completamente rifatti nel XIX secolo, risultano ispirati a quelli originari.
Il perimetro della costruzione è esadecagonale ed è raccordato allo spazio interno attraverso una struttura centrale ottagonale a doppio ordine. Si delinea così un deambulatorio sviluppato su due livelli, con coperture a crociera nella parte inferiore, che risulta scandita da otto poderosi archi a tutto sesto.
Le arcate si proiettano, più alte, al piano superiore, impreziosite da un doppio ordine di raffinate colonne corinzie. Nel deambulatorio sopraelevato trova posto il trono, collocato in alto per evidenziare il ruolo del sovrano.
Il prestigio imperiale si rivela anche nella statuetta equestre di Carlo Magno, realizzata nel laboratorio della Scuola Palatina, nel IX secolo. Gli studi sul piccolo gruppo bronzeo sono orientati a considerare il destriero un recupero del III secolo, il che ne spiegherebbe il modellato più tondeggiante e il maggiore effetto di movimento.
Il cavaliere, invece, presenta tratti più schematici: il corpo appare imprigionato in una ferma rigidità, contrastante con la scioltezza del cavallo. Tuttavia, resta il palese riferimento alla tipologia della statuaria equestre romana, a dimostrazione del desiderio di ispirarsi alla grandezza imperiale.
Inoltre, occorre ricordare che l’affermazione del potere di Carlo Magno è resa possibile anche grazie al sostegno della Chiesa. Dunque, l’arte carolingia si propone una capillare divulgazione del credo cristiano attraverso cicli figurativi intenti a diffondere le sacre scritture al popolo, spesso analfabeta.
Un celebre esempio in tal senso è fornito dagli affreschi con Storie dell’Antico e Nuovo Testamento realizzati nella I metà del IX secolo nella chiesa abbaziale di San Giovanni a Mustair, nel cantone dei Grigioni, in Svizzera.
Il ciclo pittorico, caratterizzato da una vivace vena narrativa ed espressiva, è impreziosito da motivi ornamentali di straordinaria ricchezza, vicini alle raffinate illustrazioni dei codici miniati del tempo.
Risultano di grande interesse anche gli affreschi di Santa Maria Foris Portas a Castelseprio (Varese), con Episodi della vita di Maria e di Cristo, tratti da vangeli apocrifi(*) e resi con straordinari effetti di verosimiglianza, tanto da far sussistere due ipotesi di datazione: una “alta”, che li colloca tra VI e VII secolo, mentre la “bassa” propende per una cronologia tra VIII e IX secolo.
L’opera fa riferimento a maestranze provenienti dall’Oriente cristiano, dove risulta più radicata la tradizione naturalistica classicheggiante, a dimostrazione dei rapporti instaurati sin dall’antichità tra il Nord Italia e i territori orientali.
Del resto, nei secoli altomedievali la continua rielaborazione delle tematiche classiche, nutrite da apporti sia carolingi che bizantini, si tramuta in un linguaggio segnato da un’originale verve creativa.
I caratteri più autoctoni dell’arte franca si evincono nelle opere di oreficeria e di miniatura, nonché nella lavorazione di smalti e pietre preziose. Si tratta di sontuose produzioni di piccole dimensioni, in genere destinate a una ristretta committenza aristocratica.
I codici miniati conoscono particolare diffusione e notorietà nella II metà del IX secolo, con prestigiosi esemplari arricchiti da raffinate trame decorative.
Infine, spostandoci in territorio italiano, emerge l’Altare d’oro di Sant’Ambrogio a Milano(*), uno dei massimi esempi di oreficeria carolingia.
Mariaelena Castellano
PER SAPERNE DI PIU'
(*) CARLO MAGNO E LA DINASTIA CAROLINGIA
La popolazione germanica dei Franchi proviene dalla zona del basso Reno, ma già dal V secolo occupa gran parte dei territori corrispondenti all’attuale Francia e Germania, per poi imporsi sul finire dell’VIII secolo grazie alla carismatica figura del proprio sovrano, Carlo Magno (768-814), promotore di un’ampia espansione delle frontiere del suo regno.
Egli rafforza il ruolo della corona, sia attraverso l’appoggio dell’aristocrazia, fidelizzata con la concessione di terreni e bottini, sia favorendo la diffusione del cristianesimo nei territori conquistati, in modo da ottenere il sostegno del clero.
Questa esigenza trova piena attuazione nella notte di Natale dell’anno 800, quando il re franco viene solennemente incoronato imperatore da papa Leone III nella Basilica di San Pietro: nasce così il “Sacro Romano Impero“, che concretizza l’ambizioso sogno carolingio di fondare un’ampia realtà territoriale, erede della grandezza romana e consacrata nel nome di Dio.
In questo senso, l’imperatore si considera vicario di Cristo, in quanto detiene e garantisce un potere divino.
Inoltre, Carlo Magno è consapevole dell’importanza della cultura come strumento di coesione tra popolazioni diverse. Pur sapendo a stento leggere e scrivere, chiama alla sua corte numerosi intellettuali, dando origine alla cosiddetta “Scuola Palatina“, un vero e proprio centro di elaborazione culturale, sviluppatosi nella sua residenza palaziale ad Aquisgrana.
Alla morte del sovrano, avvenuta nell’814, l’unità territoriale e politica del dominio carolingio inizia a vacillare, sia per la scomparsa di una personalità carismatica e autorevole, sia perché l’Impero diventa suscettibile di ripartizione tra i vari membri della sua famiglia, con grave danno per l’integrità dello stato.
Dopo il regno di Ludovico il Pio, figlio di Carlo Magno, l’impero passa ai suoi figli Lotario, Ludovico e Carlo il Calvo.
I tre eredi, in forte dissidio tra loro, logorano le risorse militari ed economiche dello stato per portare avanti lunghe e rovinose lotte fratricide, fino a stipulare, nell’843, il Trattato di Verdum, con cui si stabilisce una divisione territoriale: a Lotario, oltre al titolo imperiale, vengono assegnati l’Italia e la “Lotaringia”, territorio compreso tra le Alpi, il mare del Nord e i fiumi Reno, Rodano, Mosa e Schedda; a Ludovico spetta la Germania e a Carlo il Calvo la Francia.
In seguito a una serie fortuita di eventi, i possessi carolingi si riuniscono nelle mani di Carlo il Grosso, figlio di Ludovico e ultimo esponente della dinastia. Il potere regale, infatti, va sempre più indebolendosi e nell’887 il sovrano viene costretto dai nobili a deporre la corona, decretando la frammentazione dell’impero carolingio in più stati indipendenti, tra cui emergono la Francia, la Germania e l’Italia.
DENTRO L'OPERA
(*) L’ALTARE DI SANT’AMBROGIO – (824-860 circa) – Milano
In età carolingia, durante il regno di Carlo Magno, la città di Milano assume un ruolo di prestigio e la vetusta Basilica di Sant’Ambrogio, risalente al IV secolo, diventa un’abbazia patrocinata dall’impero. A presiederla, dall’824 alll’859, è il vescovo di origine franca Angilberto II e di questa fase, a cui subentreranno i rifacimenti dell’XI secolo, resta la significativa testimonianza del grande e raffinato Altare Maggiore, straordinario esempio di oreficeria carolingia.
Il manufatto si presenta come un reliquario a forma di sarcofago: una massiccia cassa lignea laminata in oro e argento dorato, con lavorazioni a sbalzo, a cesello e a filigrana, e con eleganti decori in smalto e pietre preziose.
L’opera è relazionata alla presenza delle spoglie di sant’Ambrogio e dei santi Gervasio e Protasio; queste ultime, secondo la tradizione, sarebbero state trovate proprio da Ambrogio al tempo dell’edificazione della sua Basilica, eretta sulle tombe dei due martiri. Le reliquie dei tre santi sono collocate in una cripta sottostante il presbiterio e risultano visibili da una finestrella collocata sul lato tergale dell’Altare.
I fianchi del monumento, in argento dorato, sono entrambi ornati da una grande croce inserita in una losanga. La parte frontale, dorata, è tripartita e nel pannello centrale presenta una grande croce, i cui bracci, decorati con i simboli degli Evangelisti, si incrociano in un ovale contenente il rilievo con la Maestà del Cristo Giudice; nei riquadri angolari figurano, invece, gli Apostoli, divisi in gruppi di tre.
I due pannelli laterali sono ripartiti in sei riquadri narranti Storie della vita di Gesù.
Anche il prospetto posteriore, rivestito in argento dorato, è distinto in tre parti e i due pannelli laterali presentano sei riquadri, stavolta raffiguranti episodi tratti dalla Vita di Sant’Ambrogio.
Lo scomparto centrale, formato da sportelli apribili per consentire la visione delle reliquie, presenta quattro tondi. Nei due superiori sono raffigurati gli arcangeli Michele e Gabriele, mentre in basso sono raffigurate due scene solenni: a sinistra, Sant’Ambrogio incorona il vescovo Angilberto II; a destra, il Santo Patrono incorona l’artefice dell’Altare: Vuolvinio, il cui nome perviene dall’iscrizione circostante l’immagine dell’artista, che recita in belle lettere, Vuolvinius magister phaber, Vuolvinio Maestro Orafo. Si tratta di un particolare di gran rilievo: dopo secoli di anonimato, questo riconoscimento mostra una prima consapevolezza della dignità operativa e dell’utilità sociale del mestiere dell’artista.
Se l’Altare mostra un’unicità di progettazione nella strutturazione dei pannelli, non si può sostenere altrettanto in merito all’impostazione stilistica. La realizzazione dei pannelli anteriori non è imputabile a Vuolvinio, ma a un’altra personalità artistica, oppure a più maestri, attivi a stretto contatto con il Maestro Orafo, autore, invece, delle facce laterali e del lato posteriore.
Nella parte anteriore prevale un linguaggio più nervoso, caratterizzato da forme allungate, inserite in spazi reali ed efficacemente descritti, con maggiori effetti luministici e panneggi dalle linee mosse. nelle parti attribuite a Vuolvinio, invece, lo stile è più asciutto e pacato, con contorni netti e una spiccata propensione alla monumentalità e al plasticismo, ma con poche concessioni alle descrizioni narrative.
L’Altare di Sant’Ambrogio, al di là dell’indiscutibile valore artigianale, si pone come fondamentale testimonianza delle dinamiche culturali del tempo. La studiata iconografia dell’opera, rivela l’esigenza di creare un parallelo tra il Cristo e sant’Ambrogio, nell’ottica di un’esaltazione della Chiesa milanese. Inoltre, la raffigurazione in uno dei rilievi laterali di San Martino di Tours mostra la volontà di ossequiare il clero francese e, di riflesso, il potere carolingio.
IMPARIAMO I TERMINI
(*) Westwerk: Corpo occidentale tipico degli edifici più rappresentativi di epoca carolingia. E´ formato da un nucleo centrale a più piani, affiancato da due torri scalari. Elemento importante del Westwerk risulta la loggia, generalmente collocata al secondo piano, dalla quale l’imperatore assisteva alle funzioni religiose.
(**) Apocrifo: Di libro o di documento non autentico, non genuino. In riferimento ai Vangeli apocrifi: quelli che la Chiesa cattolica esclude dal canone delle Sacre Scritture, in quanto non ne riconosce l’ispirazione divina.
VISITIAMO!
L’ABBAZIA DI SAN VINCENZO AL VOLTURNO – VIII secolo – provincia di Isernia, in Molise.
Agli inizi dell’VIII secolo tre nobili beneventani fondarono un monastero benedettino, di cui poi divennero, uno ad uno, abati.
Il territorio scelto per l’edificazione della struttura si trova a circa 2 Km dalla sorgente del fiume Volturno, in una zona fertile, da poco annessa al ducato longobardo di Benevento.
Il primo insediamento si stabilisce sulle rovine di una costruzione di epoca tardo romana, divenendo da subito un fiorente centro religioso, considerato di strategica importanza sia per la Chiesa, desiderosa di controllare un’area in genere soggetta a incursioni, sia per il ducato beneventano, intento ad aumentare il proprio prestigio anche attraverso la presenza di un rilevante complesso ecclesiastico, destinato ad ampliarsi negli anni.
Già nell’VIII secolo, infatti, dopo il passaggio alla diretta protezione di Carlo Magno, si effettuano ampliamenti del nucleo originario e nel IX secolo, con l’abate Epifanio (824-842), si portano avanti ulteriori interventi edilizi, nonché la realizzazione di un raffinato ciclo di affreschi nutriti da un ambizioso programma decorativo.
Tuttavia, all’iniziale fase di crescita del monastero benedettino fa seguito un rapido declino, incalzato nella seconda metà del IX secolo da una violenta incursione saracena.
Il sito viene abbandonato e la vita religiosa si trasferisce in una sede edificata sul versante opposto del fiume, dove oggi sorge una nuova Abbazia.
La memoria dell’antica struttura si può rintracciare negli scavi archeologici condotti nell’area originaria, dove sono emerse preziose testimonianze pittoriche di epoca carolingia, riferibili al menzionato ciclo decorativo promosso da Epifanio.
Risaltano, in particolare, gli affreschi della cruciforme Cripta di Epifanio, contraddistinti da un elaborato piano iconografico, denso di spunti teologici, avvalorati anche dai suggestivi effetti di luminosità dell’ambiente.
Con ogni probabilità, tali dipinti risultano realizzati da mani diverse e in più interventi condotti a distanza di anni.
Lo stile è ispirato al variegato panorama artistico del tempo, in bilico tra emulazione classica, contaminazioni bizantine e originari caratteri della tradizione barbarica.
Nonostante l’esigenza tipicamente altomedievale di raccontare il sacro attraverso un linguaggio simbolico, tra le scene spiccano momenti di straordinaria resa narrativa, con singolari effetti di dinamismo e di gran vivacità espressiva.