Dire amaro non rende, è da voltastomaco.
Ho confuso i barattoli, sarà stata l’agitazione. Nemmeno il tempo di sorseggiare ed entrambe le tazzine quasi si ribaltano sul tavolo. Ho ancora il volto contratto in una smorfia, la stessa di due giorni fa. In fondo, il concetto è lo stesso: la mia vita è stata stravolta, proprio come questo caffè, dove invece dello zucchero, c’è il sale.
Due giorni di confusione, rabbia, tristezza; mi sono chiuso in me stesso, in un silenzio paranoico, a pensare e ripensare, senza venire a capo di niente.
Finché questa mattina, dopo una notte insonne, me la sono ritrovata qui. Ha questo vizio di piombarmi in casa senza preavviso, fa parte della sua smania di avere tutto sotto controllo. Non deve essere stato un gran spettacolo vedermi appena sveglio con occhiaie e barba sfatta. Mi ha guardato con disappunto, mentre io son rimasto fermo davanti alla porta con la faccia stralunata.
Si è accomodata senza aspettare che la facessi entrare, con i suoi modi da prima donna, sempre impeccabile: il rossetto, la messa in piega senza un capello fuori posto, il foulard color pastello abbinato alla Fendi di turno.
Può permettersi tutto, lei. Ha comprato anche me, in effetti. Non sa che sta per perdermi, se non mi ha già perso.
La osservo di sottocchio, mentre rifaccio il caffè. Si guarda intorno e con aria perplessa scruta l’angusto angolo cottura del monolocale; starà notando i piatti accumulati e le fughe annerite delle piastrelle.
Come siamo diversi noi due! Io sono così insicuro e adesso so anche il perché. O forse no, magari quello che ho scoperto non c’entra nulla con il mio modo di essere.
Lei, invece, è così ordinata, razionale; appare piena di sé, mette distanza. Mi infonde un senso di inadeguatezza.
Un inadeguato, ecco, è così che mi sento; oggi come ieri e questo grazie a lei. Fanculo. Colpa sua se sono un fallito, se a ventotto anni non ho ancora un lavoro stabile e vivo tra queste quattro mura, in una palazzina fatiscente. Me ne sono andato di casa in fretta e furia: dovevo fuggire da quel suo sguardo altero e da quell’insidioso vuoto che, forse, si ostinerà a seguirmi.
L’aroma del caffè si sprigiona dalla mia vecchia Bialetti. Spengo il fornello e per qualche istante gli ultimi scoppiettanti bollori fischiettano all’unisono con il turbinio dei miei pensieri. Verso la bevanda ancora fumante nelle tazzine, dove stavolta, per non sbagliare, ho già messo lo zucchero.
Lei, intanto, fa una telefonata e, incurante del fatto che il caffè sia pronto, si allontana, presa dalla sua conversazione. Donna d’affari, la signora in carriera, moglie e madre perfetta. Madre? Ma no, ho sbagliato. Un errore dovuto all’abitudine.
Tu non sei mia madre, cara mamma!
Oh… un altro errore! Come dovrei chiamarla d’ora in poi? Signora Irene? Per ventotto anni l’ho chiamata “mamma” e adesso fa strano doverla appellare in un altro modo. Ma io non sono suo figlio. Ho creduto di esserlo fino a poco fa, che sciocco a non essermi mai accorto di nulla.
Poi la doccia fredda, un getto improvviso di pungenti lame ghiacciate, un fiume di scomode verità, mi hanno colpito a raffica, facendomi precipitare nell’ignoto; perché adesso non ho più nessuna certezza.
«Michele, tu che sei stato adottato, cosa mi consigli?» mi ha chiesto l’altro ieri Giuliana.
L’ho guardata stupito.
Suo marito Gianni le ha rivolto uno sguardo di rimprovero, come per farla tacere, ma lei ha continuato: «Michele, scusa se sono indelicata, è che prima di fare un passo del genere, vorrei sapere cosa si prova stando dall’altra parte. Immagino non sia stato facile per te crescere con i tuoi genitori, sapendo che non sono quelli naturali.»
Sono rimasto in silenzio per una manciata di interminabili secondi. Giuliana è stata linciata prima dallo sguardo indignato del marito, poi dalle sue parole arrabbiate: «Sei sempre la solita! I fatti tuoi non te li sai fare, eh?»
Il mio sgomento le ha quindi fatto realizzare il tutto. Ha farfugliato qualcosa e si è ritirata in un’altra camera.
Siamo rimasti io e Gianni, mio cugino, il compagno di tante scorribande infantili.
Non lo vedevo da tempo. Da quando si è sposato, due anni fa, si è trasferito in un’altra città e torna qui poche volte all’anno. Sta attraversando una fase difficile con Giuliana, me ne aveva parlato diversi mesi fa.
Volevano avere un figlio, ma dopo numerosi tentativi andati a vuoto, si sono sottoposti a degli esami ed è venuta fuori l’infertilità di Gianni.
Un brutto colpo per entrambi, uno strappo improvviso alla trama compatta della loro vita di coppia. Finché i brandelli sono stati in qualche modo ricuciti e, a poco alla volta, lo sconforto ha ceduto il posto alla ferma intenzione di non darsi per vinti.
Dopo essersi addentrati nel varco dei metodi di procreazione artificiale, da pochi giorni stanno valutando anche la strada dell’adozione. Così, zia Giulia, la madre di Gianni, ha raccontato loro la storia di sua sorella minore, che a soli ventisei anni era stata privata dell’utero, asportatole per una complicazione durante un intervento di routine. La storia di Irene, praticamente; ovvero la storia della mia madre adottiva, che ha comunque realizzato il sogno di avere un figlio.
Eccomi, prelevato da non si sa dove, figlio di chissà chi.
Zia Giulia ha violato il segreto di famiglia, complice la mancata raccomandazione alla nuora di non dir nulla a me, ignaro di tutto.
Così, il mondo mi è crollato addosso.
«Michele, mi dispiace, non avresti dovuto saperlo così, anzi, non avresti proprio dovuto saperlo», ha esclamato Gianni.
Era imbarazzato, l’aria contrita.
Sono stato lì imbambolato per un po’. Avrei voluto fargli tante domande, ma cosa avrebbe potuto dirmi?
Mi sono alzato di scatto per andare via senza nemmeno salutarlo. Non che ce l’avessi con lui, ma mi è sembrato così sciocco starmene lì a sentire scuse, senza però capire come siano andate realmente le cose.
Solo la signora Irene potrà darmi le dovute spiegazioni.
E´ ancora impegnata al telefono. Dopo infiniti ringraziamenti e frasi di circostanza, chiude finalmente la conversazione e si avvicina.
Tentenna un pochino prima di assaggiare il caffè, starà pensando al sapore amaro di prima.
Restiamo per un po’ senza parlare. Non siamo mai stati dei gran chiacchieroni noi due, figuriamoci adesso. Riorganizzo a fatica i pensieri, voglio misurare bene le parole, prima di rompere questo silenzio.
Lei, però, mi precede:
«Ero al telefono per fissarti un colloquio. La settimana scorsa ho mandato il tuo curriculum a un’azienda dove cercano un tecnico nel settore informatico. La dirige un cliente di tuo padre, così ti abbiamo fatto una buona presentazione.»
Mio padre? Eh, anche con lui cambia tutto. Non è il mio genitore biologico, forse per questo non ha mai mostrato grande considerazione nei miei confronti. Il nostro rapporto non è mai stato dei migliori.
«Allora, che ne pensi?», incalza la mia madre adottiva.
«E cosa dovrei pensare? Ti stai dando da fare per alleggerirti la coscienza?», inveisco.
Non le ho mai contraddetto niente in tutti questi anni. Si starà chiedendo cosa mi stia passando per la testa, magari attendeva i miei ossequi. Invece no. Ho voglia di vomitarle addosso tutto il marcio che da due giorni sta impastando nel mio stomaco.
«Michele, che hai? Sei nervoso?»
«Non sono nervoso!» impreco, battendo il pugno sul tavolo.
Madame Irene si limita a lanciarmi un’espressione di disappunto.
«Smettila di guardarmi con quest’aria da prima donna! Tu non sei niente per me, niente! Hai capito?» le urlo.
Altro che parole dosate e discorsi organizzati, alla fine ha prevalso la rabbia.
Lei incassa il colpo e per un attimo perde quell’aura tronfia che la distingue.
«Ne riparliamo un’altra volta, quando ti sarai calmato» sentenzia dirigendosi verso l’ingresso.
Afferra con rapidità la borsa, ma parte del contenuto si riversa per terra.
Rossetto, cipria e fazzoletti finiscono sparpagliati sul finto parquet in laminato, insieme ad altri piccoli oggetti. Mi chino per aiutarla, nonostante il suo sollecito a non impicciarmi. Non la ascolto e raccolgo una pochette trasparente. Dentro c’è un mio disegno di quand’ero bambino. Avevo raffigurato un bel sole, tanti fiori e una donna sorridente. In alto, avevo scritto con caratteri ancora incerti: “Mamma ti voglio bene”. Nella pochette ci sono anche delle vecchie foto: io da piccolo, io e lei abbracciati.
Mi rivedo bambino, intimorito da una madre un po’ troppo severa, ma sempre presente.
La osservo adesso, mentre riprende in fretta e furia le sue cose per infilarle di nuovo nella borsa. Per la prima volta, mi sembra fragile, libera da quella pesante armatura in cui ha tentato di trovare rifugio. Comincio a realizzare che questo segreto portato avanti per anni deve averla condizionata più di quanto lei stessa possa pensare.
Non deve essere stato facile convivere con la scelta di adottarmi senza svelarmi nulla. Mi chiedo e richiedo: perché non dirmelo? Ma è una domanda che per adesso voglio resti muta, la congelo nella mente, insieme a tutti gli altri pensieri.
Lei, intanto, apre la porta e sta per uscire.
«Aspetta!», la esorto. Si volta, le scorgo un velo di malinconia. Mi guarda senza dir nulla e nemmeno io parlo. Restiamo così, sospesi in un’ambigua dimensione temporale, squarciata dai ricordi di ieri e dalle domande di oggi.
Intorno a noi, il mio spazio di sempre, eppure sembra tutto così diverso. Il divano letto disfatto, le felpe e le t-shirt ammucchiate sulla poltrona, i libri sparsi un po’ ovunque; i poster, il tavolo, le sedie: tutto appare meno familiare. Sarà per questa luce mattutina, un po’ fioca, quasi evanescente; irrompe dall’unica piccola finestra della casa, s’insinua tra le fessure della persiana e avvolge tutto nell’irrealtà della sua aura diafana.
D’un tratto avverto tutta la stanchezza di questi ultimi giorni. Provo a lasciarmi andare, smetto di dominare le emozioni: sono il figlio bisognoso di affetto, il bambino ormai cresciuto, voluto da questa donna che ha scelto di essere mia madre.
«Aspetta», le ripeto, mentre distendo il volto e abbozzo un timido sorriso. «Non te ne andare, abbiamo tanto da dirci. Vieni, finiamo di bere il caffè, mamma.»
Mariaelena Castellano