Dire amaro, non rende. Questo caffè è da voltastomaco.
Nemmeno il tempo di sorseggiare, che quasi rovescio il contenuto della tazzina sul tavolo.
Ho la bocca impastata da un retrogusto aspro e pungente.
Anche la mia ospite sta provando la stessa sensazione di ribrezzo e ha lasciato andare di getto la tazzina rischiando di romperla.
Sono così teso, che ho confuso il barattolo del sale con quello dello zucchero.
Dal disgusto, il mio volto si contrae in una smorfia. La stessa di due giorni fa.
In fondo, il concetto è lo stesso: la mia vita è stata stravolta, proprio come questo caffè, dove invece dello zucchero, c’è il sale.
Sono trascorsi già due giorni.
Quarantotto ore di confusione, rabbia, tristezza… Mi sono chiuso in me stesso, in un silenzio paranoico, a pensare e ripensare, senza venire a capo di niente.
Finché questa mattina, dopo una notte insonne, me la sono ritrovata qui.
Lei ha questo vizio di piombarmi in casa senza preavviso, fa parte della sua smania di avere tutto sotto controllo.
Non deve essere stato un gran spettacolo trovarmi appena sveglio, con occhiaie e barba sfatta. Mi ha rivolto un’espressione di leggero disappunto, mentre io son rimasto fermo davanti alla porta, a fissarla con aria stralunata.
Si è accomodata senza aspettare che la facessi entrare, con i suoi modi sempre impeccabili, da prima donna: il rossetto, la messa in piega senza un capello fuori posto, il foulard color pastello abbinato alla Fendi di turno.
Può permettersi tutto, lei. Ha comprato anche me, in effetti.
Non immagina certo che sta per perdermi, se non mi ha già perso.
La osservo di sottocchio, mentre metto di nuovo la moka sul fuoco.
Lei si sta guardando intorno e scruta con aria perplessa l’angusto angolo cottura del mio monolocale; starà notando i piatti accumulati e le fughe annerite delle piastrelle.
Come siamo diversi, noi due!
Io sono così insicuro e adesso credo di sapere il perché.
O forse no… Magari quello che ho scoperto non c’entra nulla con il mio modo di essere.
Lei, invece, è così ordinata, razionale; appare piena di sé, mette distanza. Mi infonde un senso di inadeguatezza.
Un inadeguato, ecco: è così che mi sento. Oggi, come ieri. E questo grazie a lei. Fanculo.
Colpa sua se sono un fallito, se a ventotto anni non ho ancora un lavoro stabile e vivo tra queste quattro mura, in una palazzina fatiscente. Me ne sono andato di casa in fretta e furia: dovevo fuggire da quel suo sguardo altero e da quell’insidioso vuoto che, forse, si ostinerà a seguirmi ovunque.
L’aroma del caffè si sprigiona dalla mia vecchia Bialetti. Spengo il fornello e per qualche istante gli ultimi scoppiettanti bollori fischiettano all’unisono con il turbinio dei miei pensieri. Verso la bevanda ancora fumante nelle tazzine, dove stavolta, per non sbagliare di nuovo, ho già messo lo zucchero.
Lei, intanto, fa una telefonata e, incurante del fatto che il caffè sia pronto, si allontana, presa dalla sua conversazione. Donna d’affari, la signora in carriera, moglie e madre perfetta.
Madre? Ma no, ho sbagliato. Un errore dovuto all’abitudine.
Lei non è mia madre!
Come dovrei chiamarla d’ora in poi? Signora Irene?
Per ventotto anni l’ho sempre chiamata “mamma” e adesso fa strano doverla appellare in un altro modo. Ma io non sono suo figlio, anche se ho creduto di esserlo fino a due giorni fa.
Che sciocco a non essermi mai accorto di nulla. Fino a quando non è arrivata la doccia fredda. Un getto improvviso di pungenti lame ghiacciate: fiotti impetuosi che mi hanno colpito a raffica, facendomi precipitare nell’ignoto. Perché adesso non ho più nessuna certezza.
«Giulio, tu che sei stato adottato, cosa mi consigli?» mi ha chiesto Sara, l’altro ieri.
Io, per tutta risposta, ho corrucciato la fronte e sono rimasto in silenzio.
Suo marito Michele, invece, le ha rivolto uno sguardo di rimprovero, come per farla tacere, ma lei ha continuato: «Giulio, scusa se sono indelicata, è che prima di fare un passo del genere, vorrei sapere cosa si prova stando dall’altra parte. Immagino non sia stato facile per te crescere con i tuoi genitori, sapendo che non sono quelli naturali.»
Incredulo, ho continuato a starmene zitto, mentre Michele ha assalito sua moglie: «I fatti tuoi non te li sai fare, eh?»
Sara ha percepito il mio sgomento e ha così realizzato di avermi rivelato una scomoda verità. Una verità che mi è stata nascosta per troppo tempo. Ha quindi farfugliato qualche parola di scusa e si è ritirata in un’altra camera.
Sono rimasto da solo con Michele, mio cugino, compagno di tante avventure e scorribande d’infanzia.
Non lo vedevo da tempo. Da quando si è sposato, tre anni fa, si è trasferito in un’altra città e torna qui poche volte all’anno. Sta attraversando una fase difficile del suo matrimonio, me ne ha parlato proprio l’altro giorno.
Lui e Sara volevano avere un figlio, ma dopo numerosi tentativi andati a vuoto, si sono sottoposti a degli esami ed è venuta fuori l’infertilità di Michele.
Un brutto colpo per entrambi, uno strappo improvviso alla trama compatta della loro vita di coppia. Finché i brandelli sono stati in qualche modo ricuciti e, a poco a poco, lo sconforto ha ceduto il posto all’idea di provare comunque a formare una famiglia, tentando la strada dell’adozione.
Così, zia Sofia, la madre di Michele, ha raccontato loro la storia di sua sorella Irene, che a soli ventisei anni era stata sottoposta a isterectomia, ma grazie all’adozione ha poi realizzato il sogno di avere un figlio.
Eccomi, quel figlio sono io. Prelevato da non si sa dove, figlio di chissà chi.
Zia Sofia ha violato il segreto di famiglia e, complice la sua mancata raccomandazione alla nuora di non dir nulla a me, ignaro di tutto, ha cambiato per sempre il corso dei miei giorni.
Così, il mondo mi è crollato addosso.
«Giulio, mi dispiace, non avresti dovuto saperlo così… Anzi, non avresti proprio dovuto saperlo» ha esclamato Michele.
Era visibilmente imbarazzato.
Io sono restato lì, imbambolato, senza dir niente, per un bel po’. Avrei voluto fargli tante domande, ma cosa avrebbe potuto dirmi?
Mi sono alzato di scatto per andare via, senza nemmeno salutarlo. Non che ce l’avessi con lui, ero arrabbiato col mondo intero. E poi mi è sembrato inutile restarmene lì a sentire le sue scuse, senza però capire come siano andate realmente le cose.
Solo la signora Irene potrà darmi le dovute spiegazioni.
E´ ancora impegnata al telefono. Dopo infiniti ringraziamenti e frasi di circostanza, chiude finalmente la conversazione e si avvicina per prendere la sua tazzina di caffè. Prima di assaggiarlo, tentenna, starà pensando al sapore acre di prima.
Assaporiamo le nostre bevande fumanti senza parlare. Non siamo mai stati dei gran chiacchieroni noi due.
Prima di rompere questo silenzio, riorganizzo a fatica i pensieri, voglio misurare bene le parole.
Lei, però, mi precede: «Ero al telefono per fissarti un colloquio. La settimana scorsa ho mandato il tuo curriculum a un’azienda dove cercano un tecnico nel settore informatico. La dirige un cliente di tuo padre, così ti abbiamo fatto una buona presentazione.»
Mio padre? Eh, anche con lui cambia tutto. Non è il mio genitore biologico, forse per questo non ha mai mostrato grande considerazione nei miei confronti. Il nostro rapporto non è mai stato dei migliori.
«Allora, che ne pensi?» incalza la mia madre adottiva.
«E cosa dovrei pensare? Ti stai dando da fare per alleggerirti la coscienza?» inveisco.
Non le ho mai contraddetto niente in tutti questi anni. Si starà chiedendo cosa mi stia passando per la testa, magari attendeva i miei ossequi.
Invece no. Ho voglia di vomitarle addosso tutto il marcio che da due giorni si sta impastando nel mio stomaco.
«Giulio, che hai? Sei nervoso?»
«Non sono nervoso!» impreco, battendo il pugno sul tavolo.
Madame Irene si limita a lanciarmi un’espressione crucciata.
«Smettila di guardarmi con quest’aria da prima donna! Tu non sei niente per me, niente! Hai capito?» le urlo.
Altro che parole dosate e discorsi organizzati, alla fine ha prevalso la rabbia.
Lei incassa il colpo e per un attimo perde quell’aura tronfia che la distingue.
«Ne riparliamo un’altra volta, quando ti sarai calmato» sentenzia dirigendosi verso l’ingresso.
Afferra con rapidità la borsa, ma parte del contenuto si riversa per terra.
Rossetto, cipria e fazzoletti finiscono sparpagliati sul finto parquet in laminato, insieme ad altri oggetti.
Mi chino per raccogliere il tutto, nonostante il suo sollecito a non impicciarmi. Non la ascolto e afferro una pochette trasparente. Dentro c’è un mio disegno di quand’ero bambino. Avevo raffigurato un bel sole, tanti fiori e una donna sorridente. In alto, avevo scritto con caratteri ancora incerti: “Mamma, ti voglio bene”.
Nella pochette ci sono anche delle vecchie foto: io da piccolo, io e lei abbracciati.
Mi rivedo bambino, intimorito da una madre un po’ troppo severa, ma sempre presente.
La osservo adesso, mentre riprende in fretta e furia le sue cose per infilarle di nuovo nella borsa. Per la prima volta, mi sembra fragile, libera da quella pesante armatura in cui ha tentato di trovare rifugio.
Comincio a realizzare che questo segreto portato avanti per anni deve averla condizionata più di quanto lei stessa possa pensare.
Non deve essere stato facile convivere con la scelta di adottarmi senza svelarmi nulla.
Ma perché non dirmelo? È una domanda che per adesso non conta, la congelo nella mente, insieme a tutti gli altri pensieri.
Lei, intanto, apre la porta e sta per uscire.
«Aspetta!» la esorto.
Si volta, le scorgo un velo di malinconia sugli occhi. Mi guarda senza dir nulla e nemmeno io parlo. Restiamo così, sospesi in un’ambigua dimensione temporale, squarciata dai ricordi di ieri e dalle domande di oggi.
Intorno a noi c’è il mio spazio di sempre, il mio piccolo monolocale.
Eppure sembra tutto così diverso.
Il divano letto disfatto, le felpe e le t-shirt ammucchiate sulla poltrona, i libri sparsi un po’ ovunque; i poster, il tavolo, le sedie: tutto appare meno familiare. Sarà per questa luce mattutina, un po’ fioca, quasi evanescente; irrompe dall’unica piccola finestra della casa, s’insinua tra le fessure della persiana e avvolge tutto nell’irrealtà della sua aura diafana.
D’un tratto avverto tutta la stanchezza di questi ultimi giorni. Provo a lasciarmi andare, smetto di dominare le emozioni: sono il figlio bisognoso di affetto, il bambino ormai cresciuto, voluto da questa donna, che ha scelto di essere mia madre.
«Aspetta» le ripeto, mentre distendo il volto e abbozzo un timido sorriso.
«Non te ne andare, abbiamo tanto da dirci. Vieni, finiamo di bere il caffè, mamma.»
Mariaelena Castellano