“La sirata era di tali billizza che faciva viniri malinconia, il càvudo della jornata si era misteriosamente cangiato in una friscura che arricriava, ‘n celu galleggiava una luna che avrebbero potuto mangiari alla sò luci.”
Quando un po’ di tempo fa mi sono addentrata per la prima volta nella lettura di uno scritto di Andrea Camilleri, precisamente La vampa d’agosto, da cui è tratto il passo su riportato, ho provato un iniziale senso di smarrimento.
“Oh no, è tutto in dialetto siciliano!”, ho pensato di fronte alle prime pagine del romanzo.
Stavo quasi per abbandonare la lettura, ma come al mio solito, ho desistito da questa tentazione. Sono una lettrice cocciuta e vado avanti fino alla fine del testo, con la convinzione che da ogni libro si possano ricavare insegnamenti e riflessioni.
Così, nei caldi pomeriggi di un’estate di molti anni fa, mi sono immersa nell’intrigante trama de La vampa d’agosto.
Camilleri era un volto noto del panorama letterario italiano già da tempo, dunque per me rappresentava quasi un dovere sacrosanto leggere almeno uno dei suoi scritti. Non si poteva restare al di fuori delle rinomate vicende del commissario Montalbano, c’era anche una fortunata serie televisiva a riproporne le trame, ma io mi ero ostinata a non vederla senza prima aver letto almeno un racconto.
Così, pagina dopo pagina, ho scoperto la penna abile e arguta del Maestro e, man mano che andavo avanti, il dialetto siciliano diventava sempre più comprensibile, contribuendo a dipingere ad arte quei fascinosi scenari siculi, presentati nella loro più schietta veridicità.
Camilleri aveva il gran dono di accompagnare il lettore con maestria, di guidarlo nella narrazione con un’efficacia descrittiva mai pedante o scontata. Sapeva essere lirico, ma anche ironico; saggio, ma anche leggero. Nel tessere le trame del commissario di Vigàta, riusciva a inserire con disinvoltura anche sue personali considerazioni di vita, spesso riferite all’amata Sicilia o al nostro Bel Paese.
Sempre da La vampa d’agosto scriveva così:
“Come diciva patre Dante?
Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donne di provincie ma bordello!
L’Italia continuava a essiri serva, minimo di dù patroni, l’America e la Chiesa, e la tempesta era addivintata giornaliera macari a causa di un nocchiere ch’era megliu perdirlu ca truvarlu. Certo, le province delle quali l’Italia era donna ammontavano ora a chiossà di un centinaro, in compenso però il bordello era crisciuto in modo esponenziale.”
Accanto a questi passi più riflessivi, stemperava il tutto con incisive descrizioni di aspetti più semplicisti e quotidiani. Il cibo e la bontà dei sapori, per esempio.
Se mi capitava di leggere dei pranzetti a base di pesce e buon vino che si concedeva Salvo nella sua trattoria di fiducia, o nella quiete domestica della sua casa sul mare, c’era poco da fare, interrompevo la lettura per un assalto al frigo. Si narrava di alive e tumazzu? Le olive e il formaggio diventavano prelibatezze da mettere subito nel piatto.
“Se la pasta ‘ncasciata, quando scomparse, fu rimpianta assà, le milanzane alla parmigiana si meritarono, arrivate al termine, ‘na speci di lungo lamento funebre. Colla pasta, trovò onorevole morte macari ‘na buttiglia di un bianco tenero e ‘ngannevoli, con le milanzane si sacrificò invece ‘na mezza buttiglia di un altro bianco che, sutta ‘n’apparenza di mitezza, ammucciava un animo tradimentoso.”
Quest’ultimo passo è tratto da Le ali della Sfinge. Inutile specificare che La vampa d’agosto ha inaugurato un mio nuovo gusto letterario e, a poco alla volta, un intero scaffale della libreria di casa è stato invaso da volumi targati Camilleri.
Storie della saga di Montalbano strutturate in modo autonomo, eppure legate una all’altra da una sottesa orditura delle trame. Narrazioni indipendenti tra loro, da poter leggere senza seguire un ordine cronologico, ma da inserire, tassello dopo tassello, nel variopinto puzzle del commissariato siculo più famoso d’Italia.
Anche questa è sapiente maestria.
Ho preso confidenza con i personaggi della serie, delineati con tale perizia, da sembrar tutt’altro che inventati. Il commissario Salvo Montalbano; i fidati Fazio e Mimì Augello; Livia, la fidanzata storica del protagonista; e, infine, come non menzionare la verve comica del goffo e impacciato Catarella?
Personaggi divenuti ancora più popolari dal 1999 grazie alla trasposizione dei romanzi negli episodi della celebre serie televisiva già citata. Del resto, lo stesso Camilleri con i suoi trascorsi di regista e sceneggiatore, aveva predisposto la possibilità di passare dalle pagine scritte alle pellicole filmiche. Così, se negli altri casi questo passaggio è sovente segnato da una vistosa alterazione della genuinità letteraria, le puntate dove Luca Zingaretti interpreta Montalbano rappresentano, invece, una fedele proiezione visiva dei racconti dell’autore.
Lo scorso 17 luglio se ne è andato un grande uomo che, a dispetto dei suoi 93 anni, ha mantenuto salda la spigliatezza giovanile, diluita e rinsaldata in un’aura bonaria e pacata, la stessa che trapela in ogni sua opera.
Si è tanto scritto su Camilleri in questi giorni, il web è ancora invaso da video, articoli, post.
Stavo quasi rinunciando all’idea di ricordarlo anche io con questo mio tributo, per non rischiare di echeggiare quanto già detto dalle molteplici altre fonti informative. Tuttavia, alla fine ha prevalso il bisogno di celebrarlo, di dirgli in qualche modo “grazie”, con il grande rammarico di non essere mai riuscita a incontrarlo:
«Grazie, Maestro, e non solo per le massime di vita e per le piacevoli letture che mi hai regalato. Grazie anche per avermi traghettata, a tua insaputa, nel mondo della scrittura.
Quando ho iniziato a leggerti, avevo già intrapreso questo suggestivo quanto complesso iter, ma è stato in particolare con il tuo celebre esempio che ho compreso quale dono meraviglioso sia il poter comunicare in quel che si scrive un’interiorità che apre nuovi orizzonti a chi legge.
Grazie perché con la tua caparbietà hai mostrato che bisogna sempre credere in quel che si porta avanti: non ti sei arreso di fronte ai rifiuti delle case editrici, poco propense a scommettere su una pubblicazione in dialetto siciliano, riuscendo alla fine a sbaragliare tutti con la tua mirabile penna.
Grazie per avermi incanalata nel tuo particolare genere giallo, impreziosito da un nutrito corredo narrativo, che lo rende al contempo avvincente e lirico. Innegabile il mio essermi ispirata a queste tue linee guida nei racconti di Casa d’Arma; così come è evidente il riferimento alla tua genuinità sicula in alcuni dialoghi in dialetto siciliano che ho inserito nel mio primo romanzo, Il sole nel buio.
Grazie, Maestro, per tutto quello che hai saputo tramandare. Nessun commiato, però: abbiamo una gran eredità e tu continuerai a vivere attraverso le tue immortali e seducenti narrazioni.»
M.C.