Sono trascorsi quasi due mesi da quando ho acquistato l’ultimo romanzo di Lorenzo Marone. Era il 5 novembre, c’era la sua presentazione alla libreria Tasso e, in verità, nel sentir parlare di Seconda Guerra Mondiale e di campi di concentramento, ho comprato questo libro con un po’ di remora, per poi rimandarne più volte la lettura. Non amo calarmi nelle vicissitudini di un periodo così denso di barbarie e crudeltà, ecco. “La storia è un carnaio che non ha memoria del passato”, ha chiosato lo stesso Marone in riferimento ai tristi eventi bellici, che da sempre accompagnano l’umanità.
Tuttavia, “Sono tornato per te” è finito sul mio comodino, insieme a due libri già in lettura: “Il piacere” di Gabriele D’Annunzio e “Colazione da Tiffany” di Truman Capote. Da un po’ di tempo a questa parte, infatti, oltre a riprendere i classici già letti da ragazza, alterno diversi titoli: meglio spaziare tra più trame, a seconda del mood del momento.
Così, a un certo punto, tra le raffinate disquisizioni estetiche di Andrea Sperelli e le esilaranti avventure di Holly, ecco arrivare anche il turno di Cono Trezza e del suo grande amore per Serenella Pinto. Gli orrori della guerra, sì, ma anche le bellezze dell’amore, o meglio dell’ammore, con due M, per dirla con Erri De Luca, giacché la storia di Cono e Serenella racconta di un sentimento vero come pochi, intenso e palpitante di emozioni: “Cono la vide subito, la splendida Serenella (…) Lui s’immobilizzò dinanzi al suo sguardo profondo che gli scavava dentro, e nella pancia sentì le viscere strizzarsi con uno spasmo, uno sfarfallio che portava sangue a ogni parte del corpo…”
Il loro amore si svela tra gli scenari aridi ma fascinosi del Vallo di Diano, a ridosso del Cilento, dove la vita scorre lenta insieme alle acque del fiume Tanagro e il tempo viene scandito dalle stagioni della mietitura e dei raccolti; lì, dove si avverte il senso viscerale della famiglia e delle proprie origini, tra luoghi ben noti e saldamente radicati nel vissuto di ognuno.
“Io vivo in città e narro del Cilento per evadere dalla realtà metropolitana, per cercare quella genuinità, quel conoscere ogni singola pietra di un luogo che è quello in cui hanno vissuto mio padre e mio nonno” ha rivelato l’autore partenopeo.
Cono e Serenella si conoscono che sono ancora due ragazzini, eppure appaiono già scaltri e determinati. Lei, che agli occhi dei più non è particolarmente bella, ha un carattere forte; è spigliata e intelligente, come emerge dai dialoghi, dal suo modo di tenere testa agli sfottò di Cono e dal suo sapersi porre con prudente intraprendenza.
Cono, soprannominato “Galletta” per la sua esuberante e impertinente vivacità, è un contadino nato da una famiglia semplice, così come semplice è la gente della sua terra, votata al lavoro e alla necessità ancestrale di tirare avanti: “I Trezza erano abituati a stipare il dolore come stipavano la legna per l’inverno; la sofferenza, tanto quanto la fatica quotidiana, era qualcosa di cui non si lamentavano”.
La quiete di questa gente è però destinata a essere sconvolta: sono gli anni Trenta del Novecento e l’imposizione del fascismo non tarda a mostrare le più nefaste conseguenze. Cono non intende piegarsi ai soprusi del sistema, ma la sua avventata fierezza non gli viene perdonata e si ritorce anche contro la sua famiglia. A pagarne maggiormente le spese sarà suo padre, Giuseppe Antonio, Peppandoniu.
Uomo onesto, di poche parole, con il suo esempio di lealtà e di coraggio resterà sempre un pilastro fondamentale per il suo primogenito. Autorevole ma comprensivo, Peppandoniu si rassegna con umiltà e dedizione alle fatiche della vita da bracciante e più volte tenta di placare l’animo ardente e rabbioso del figlio: “Il mondo è un posto ingiusto, Cono, impara presto a capirlo. La terra ci ha insegnato a portare pazienza, non puoi lottare da solo contro tutti. Così come non puoi odiare il fuoco, allo stesso modo non puoi sfidare ciò che è ovunque, una forza più grande di te. Puoi solo seminare il tuo pezzo di terra e sperare di raccogliere i frutti. Non abbiamo potere che su poco, la nostra vita, in parte, e quella della nostra famiglia.”
Sono anni difficili quelli della gioventù di Cono. La dittatura e il timore di una nuova guerra irrompono nella pacata quotidianità del Vallo di Diano e devastano i piani per il suo roseo futuro con Serenella. Il giovane Trezza parte per il servizio militare e nulla sarà più come prima: egli sopravvive alla furia distruttrice della guerra, ma quando arriva l’8 settembre 1943, viene catturato dai nazisti e deportato in Germania.
Nessun pensiero politico fa da sfondo ai suoi due atroci anni di prigionia nei lager tedeschi. Soltanto la disperata ostinazione a voler sopravvivere per tornare a casa, dalla sua famiglia e dall’amata Serenella.
Con lui, a patire le torture e la fatica dei lavori più duri, altri prigionieri italiani. Si fa presto a diventare amici in un lager: la condivisione del dolore crea empatia, solidarietà. Così Galletta trova riparo nei consigli e negli incoraggiamenti di Palermo, compagno di sventura, ma anche di speranza, da cui più volte si lascia rabbonire, cercando di placare l’ira e la disperazione che gli scorrono dentro.
Tutta la rabbia e lo sgomento trovano poi uno sfogo quando viene reclutato come pugile da un kapò tedesco: “Fu il pugilato lo sport più praticato nei campi di concentramento. Piaceva al Fuhrer, alle guardie naziste che scommettevano sugli incontri, ai kapò che obbligavano i prigionieri a combattere di notte.”
Cono dà tutto se stesso alla boxe per non soccombere, si allena con tenacia e quando tira a pugni, può finalmente liberare la sua frustrazione.
Il suo comando è quello di resistere, di non cedere alla stanchezza, né alla paura provata dinanzi alle sofferenze disumane della sua prigionia. Deve resistere per poter far ritorno a casa, così si aggrappa ai ricordi e il valore della memoria plasma la sua lunga attesa. I momenti della sua giovinezza vengono man mano a galla: gli insegnamenti e l’affetto della famiglia, il lavoro nei campi, i buoni frutti della terra, il mangiare a tavola tutti insieme. Ogni gesto, ogni particolare che gli torna alla mente pare concedergli nuove energie, soprattutto il ricordo di lei, di Serenella, dei “suoi lunghi capelli ricci (…) una massa scura sul punto d’esplodere (…), nei suoi occhi neri ci si smarriva, la sua pelle assumeva nelle pieghe il colore dell’ebano, e sul viso sfumava in tinte auree; solo a vederla, faceva venire in mente l’estate!”
“Sono tornato per te” è un inno all’amore e alla potenza dei sentimenti, capaci di sovrastare le più indicibili crudeltà di cui l’uomo può essere capace.
Cono Trezza ci insegna il coraggio, la determinazione, la pazienza dell’attesa e, non ultimo, il valore della memoria.
“A Mariaelena, che conosce il valore della memoria!”, così mi scrive Lorenzo Marone nella dedica del libro. Nella presentazione si era parlato dell’importanza del saper ricordare, per cui ho da subito apprezzato queste sue parole. Ma adesso, dopo aver letto il romanzo, le apprezzo ancor di più.
È una storia che lascia il segno, questa. È una storia capace di far riflettere sui più reconditi sentimenti umani e sul senso della vita che scorre. Un libro da leggere e rileggere.
Mariaelena Castellano