Nessuno parli, restiamo per un po’ in silenzio.

E che sia un silenzio spontaneo, meditativo e personale.

Senza imposizioni dall’alto, senza orari stabiliti per vani minuti di raccoglimento.

Che l’arbitro fischi regolarmente l’inizio delle partite di serie A.

Che i giocatori indossino le maglie senza lutti al braccio.

Lasciamo scorrere anche lo svolgimento dei calendari di eventi e manifestazioni di quest’ultimo scorcio d’estate.

Siamo tutti bravi a polemizzare su mancate dimostrazioni di solidarietà, da attuare attraverso sospensioni, rinvii e minuti di silenzio.

Serve ben altro.

Serve un silenzio dell’anima, in ognuno di noi.

Un vuoto di suoni e di parole che ci consenta di comprendere con ferma convinzione che non si può più restare passivi di fronte a disastri del genere.

Protestiamo, arrabbiamoci, facciamo sentire la nostra voce.

E chi, dall’alto delle sue cariche,  può concretamente  contribuire per far riemergere il nostro bel Paese da questo ristagno gestionale, lo faccia.

Scavalchi gli ostacoli burocratici, oltrepassi i sistemi corruttivi dominati dal dio denaro e crei dei validi presupposti per far sì che nel XXI secolo in Italia si possa parlare del rispetto delle normative di sicurezza stradale.

E quindi del rispetto per i cittadini.

O meglio del rispetto per le persone.

Per chi, ad esempio, lo scorso 14 agosto, a Genova, percorreva la A10, in corrispondenza di un lungo tratto posizionato sul ponte Morandi.

Un tratto funesto.

Crollato miseramente, senza preavviso, per seppellire sotto cumuli di macerie chi abitava e chi transitava negli spazi sottostanti.

Un boato terribile, più forte dei tuoni che rombavano in una piovosa e tragica vigilia di Ferragosto.

Trentotto i morti accertati adesso che scrivo.

Quindici i feriti, di cui nove in codice rosso.

Una ventina i dispersi.

Oltre seicento gli sfollati.

Numeri?

No. Persone.

Tra i morti quattro nostri conterranei di Torre del Greco.

E un bambino di dieci anni.

Dietro  ognuna delle trentotto vittime c’erano storie di vita, di relazioni, di affetti.

C’erano famiglie, ora travolte dall’ennesimo disastro dovuto agli inadempimenti delle misure atte ad assicurare la funzionalità delle infrastrutture.

E qui mi vien da pensare a quando parlo ai miei studenti di architettura romana.

Di solito inizio con l’elencare loro esempi di infrastrutture dei nostri tempi che riversano in condizioni discutibili e utilizzo questo richiamo per evidenziare come invece i Romani costruivano strade, ponti, mura e acquedotti con grande efficienza, tant’è che tutt’oggi esistono numerose testimonianze sopravvissute nei secoli.

Perché attraverso l’abilità costruttiva e la perizia tecnica insita nelle sue monumentali strutture, il popolo romano  celebrava quel fondamentale valore di grandiosità, rafforzando così l’immagine di un impero potente e glorioso.

Ecco, siccome oggi risulta così impensabile ragionare in termini di rispetto per la persona, si provasse almeno a far valere l’intento di glorificare l’immagine del nostro paese mediante una corretta messa in sicurezza delle infrastrutture.

Magari impostandola su questi termini si riscuoterà più attenzione.

Funziona così, no?

Intanto, però, noi concediamoci questo silenzio introspettivo.

Meditiamo su quanto accaduto.

Ricordiamo anche la situazione relativa agli edifici e alle strutture presenti nei nostri territori.

Quante volte ho insegnato in scuole dell’entroterra partenopeo con crepe alle mura e calcinacci pericolanti?

E cosa dire del viadotto che collega la Penisola Sorrentina a Castellammare di Stabia?

Dopo il crollo del ponte genovese questa immagine domina da giorni sui social.

“Condividete, per favore” è la scritta di accompagnamento.

Silenzio.

Meditiamo. Tanto.

E poi, per favore, oltre al condividere, alziamo la voce.

Mariaelena Castellano