“Diamanti” di Ferzan Özpetek è uno di quei film che smuove i pensieri e lascia qualcosa dentro. Qualcosa di indefinito, però. Gli stimoli vengono raccolti man mano, per essere meglio compresi a poco alla volta.
Quando ti ritrovi a guardare i titoli di coda e a dover uscire dalla sala di proiezione, fai quasi fatica a lasciarlo andar via, questo film. E, a uno a uno, i suoi messaggi s’insinuano nella tua mente. Pensi alla potenza evocativa dei ricordi, ma anche alle sofferenze di un passato che torna sempre a galla; rifletti sul modo di porsi degli altri, su chi appare benevolo e su chi, invece, si incattivisce, forgiato com’è da un vissuto non sempre facile; mediti sulla necessità di non fermarti, di non restare impigliato nei drammi che costellano la tua esistenza, perché in un modo o nell’altro bisogna andare avanti.
“Diamanti” è questo e molto altro ancora.
È un’opera corale, con un cast stellare e in prevalenza femminile. Un dichiarato omaggio al variegato universo delle donne: dalla lavoratrice che si fa in quattro per far quadrare i conti e per mantenere gli equilibri in famiglia, alla donna di successo, che dietro la sua algida corazza nasconde mille fragilità.
Ma a prevalere, alla fine, è sempre una gran forza d’animo. Le donne brillano di luce propria, si rinvigoriscono nella loro fiera solidità. Sono luminose e forti. Sono dei diamanti.
La trama è ambientata nell’Italia degli anni Settanta, un decennio scalpitante di tensioni e cambiamenti sociali. Ed è in questo segmento temporale che Özpetek ci apre le porte di una sartoria specializzata in costumi per il cinema e il teatro, svelando così una parte del suo mondo cinematografico, ma anche una parte della sua infanzia, quando da bambino frequentava questi laboratori artigianali e assaporava già le emozioni del processo creativo.
Özpetek, però, osa di più ed entra nel cast per interpretare sé stesso: “Diamanti” si apre con la convocazione delle attrici, con il regista che dialoga con loro e, al tempo stesso, mostra allo spettatore la sua fonte ispiratrice, la visione della storia che prende man mano forma, fino a condurlo al concepimento dell’opera.
Un inno alle donne, ma anche un inno al cinema, dunque.
Così, chi guarda si ritrova dentro il film, prima nel presente del set, dietro le quinte; poi nel passato degli anni Settanta, nell’atelier gestito dalle sorelle Alberta (Luisa Ranieri) e Gabriella Canova (Jasmine Trinca). Qui lavora un’affiatata equipe di sarte, che si adopera con tenacia e determinazione. Ognuna custodisce pensieri, drammi, sfide, rinunce e speranze. Ognuna ha una sua storia da raccontare. E Özpetek tesse con abilità questa intricata trama, alternando alle sequenze narrative della storia altri “fuori onda” del cast. Un film nel film, un’ardita mescolanza di realtà e finzione.
Un gioco che spiazza e, come un effetto domino, catapulta ognuno di noi dentro la pellicola per vivere insieme ai personaggi quelle che, in fondo, risultano tematiche già ben note: il ruolo sociale delle donne, la loro complessità, la solidarietà femminile, i tanti drammi che costellano l’esistenza umana. E, non ultimo, il concetto di maternità, in tutte le sue sfaccettature e in tutta la sua essenza. Eppure, per l’intensità e la semplicità con cui vengono espresse, è come se queste tematiche venissero svelate appieno per la prima volta, come racconti di vita vera, svincolati dai cliché della trasposizione cinematografica.
La potenza di un film è tutta qui: nel mostrare ogni cosa sotto una nuova luce; nel raccontare la vita nella sua essenziale bellezza e nei suoi valori più autentici. I sentimenti prendono così il sopravvento ed emerge appieno il comune senso di appartenenza a un cammino. Un cammino che è di tutti. Degli attori, degli spettatori. E del regista, che nell’interpretare sé stesso, si veste di un sorriso compiaciuto. Quello di chi sa di aver colto nel segno.
Perché Özpetek ha saputo tramutare il lirismo della vita in un film, come rivela l’ultima intensa scena, inaspettata conclusione della pellicola: un inno a sua madre, un inno a tutte le madri e all’amore materno. Ovvero l’amore più forte, sigillato in un’eterna contemplazione di animi, che sopravvive a tutto, persino alla morte.
Sì, l’amore di una madre è una perenne fonte ispiratrice. Una luminosa rivelazione divina. Un diamante.
Mariaelena Castellano