Giovanni Bellini (1431/36 ca. – 1516) nasce a Venezia. Qui svolge la sua lunga carriera artistica, dopo essersi formato nell’ambito della bottega paterna, una delle più rinomate nella città.
Nel 1453 sua sorella Nicolosia sposa il pittore Andrea Mantegna dal quale Bellini apprende i modi rinascimentali. Volge così una maggiore attenzione alla resa prospettica degli spazi e alla saldezza plastica dei volumi, distanziandosi dal linguaggio tardo gotico ancora dominante negli insegnamenti del padre, Jacopo Bellini.
Dopo una prima fase in cui aderisce agli stilemi incisivi del cognato, Giovanni si apre a forme più morbide, derivategli dalla conoscenza dell’opera pierfrancescana e dall’incontro con il pittore meridionale Antonello da Messina.
Confrontando l’Orazione nell’orto del Bellini (1465-1470 ca.) con il dipinto dall’analogo soggetto del Mantegna si può comprendere il differente orientamento dei due artisti.
Rispetto alla già esaminata tavola del pittore padovano, Giovanni dona alla composizione uno scenario più ampio, dove la conformazione rocciosa è ammorbidita da profili sinuosi, in un’ambientazione reale e riconoscibile nella visione dei colli Euganei. Anche qui il Cristo prega in solitudine, ma il suo corpo non è più avvolto da ombre cupe: è ben lumeggiato, in accordo con una resa più serena di questo solenne momento di raccoglimento.
La luminosità dorata del nuovo giorno investe tutto il paesaggio contribuendo al tono intimistico e placido dell’immagine, ben distante dall’enfasi drammatica e dalla tensione lineare presenti nell’opera di Andrea.
La luce assume un ruolo fondamentale in tutta la pittura belliniana: essa modella ed evidenzia ogni cosa donando calda e viva pienezza ai colori.
Anche nella Pietà di Brera, dipinta sempre negli anni sessanta del XV secolo, una luce morbida e avvolgente accarezza i tre corpi in primo piano. Se la luce del Mantegna scolpisce le forme per coniugarle a un’essenza più drammatica, Bellini predilige una visione distesa degli eventi, in cui un’armonia superiore governa uomo e natura. Anche il dolore fa parte di quest’armonia e va dunque accettato con fiduciosa rassegnazione, come espressione dell’alto volere divino.
Nella Pietà emerge un’intensa lettura del dramma cristiano, reso con straordinaria naturalezza in una toccante dimensione umana. I volti del Cristo e della Vergine sono teneramente accostati, mentre San Giovanni volge il suo sguardo commosso a destra, verso un punto esterno al dipinto. Il corpo martoriato del Salvatore, sostenuto con devota protezione dalla madre, è modellato con gran abilità, raggiungendo esiti virtuosi nel braccio proteso in avanti, appoggiato sul ripiano marmoreo in primo piano.
Soavi bagliori luministici pervadono il lirismo dei gesti e delle espressioni, guizzando nei sottili preziosismi aurei degli eleganti riccioli del San Giovanni.
Anche lo sfondo paesaggistico, descritto con minuzia, è intriso da questo caldo chiarore, come a voler mitigare i toni della narrazione drammatica: per Bellini la natura riveste un ruolo fondamentale e l’uomo, spogliato dal suo assoluto protagonismo rinascimentale, ne costituisce solo una parte.
Questa consapevolezza di intima fusione tra uomo e natura trova piena attuazione nelle innovative soluzioni compositive adottate in alcune maestose pale d’altare realizzate a partire dagli anni Settanta del XV secolo.
Risale al 1475 circa la tavola dipinta per la Chiesa di San Francesco a Pesaro, conosciuta come Pala Pesaro. Nella tavola centrale, sullo sfondo dell’Incoronazione della Vergine tra Santi, si apre un paesaggio caldo e luminoso, visibile dall’apertura della spalliera del trono marmoreo, con un suggestivo effetto di quadro nel quadro.
All’originale verve scenografica si accompagna una magistrale trattazione prospettica, generata anche dall’uso del colore. L’artista, infatti, dispone in primo piano le cromie più calde e in lontananza quelle fredde ottenendo così una profondità spaziale, poichè le tinte calde risaltano maggiormente in avanti rispetto a quelle fredde, che al contrario sembrano spingersi indietro.
Questo sapiente dosaggio dei colori, riscontrabile già in altre opere precedenti, dona alle scene dipinte un’intensa e viva areosità.
Non sappiamo fino a che punto Bellini sia consapevole dell’utilizzo di quella che può definirsi una prima applicazione della cosiddetta “prospettiva cromatica”, ma di certo le sue innovative sperimentazioni si pongono alla base delle successive e fondamentali conquiste della pittura veneta.
Nel trittico dei Frari, indiscusso capolavoro realizzato nel 1488 per la chiesa veneziana di Santa Maria Gloriosa dei Frari, i personaggi appaiono avvolti in un’aura di austera monumentalità e si stagliano con gran risalto plastico in uno spazio dilatato in uno stupefacente effetto di profondità.
Nella più tarda Pala di San Zaccaria, firmata e datata nel 1505 per l’omonima chiesa veneziana, Bellini ambienta una Sacra Conversazione in una nicchia costruita con gran veridicità architettonica, tanto da simulare uno sfondamento della reale parete della chiesa.
La Madonna con il Bambino si erge maestosa sull’alto trono marmoreo, attorniata da quattro santi disposti a semicerchio, colti in pacati atteggiamenti riflessivi, in un’atmosfera di calma meditativa a cui concorrono anche i diafani trapassi luministici e i delicati accordi cromatici.
I sapienti effetti illusionistici nella resa della spazialità invitano chi guarda a essere partecipe della scena dipinta lasciandosi avvolgere dall’intenso lirismo emotivo del Bellini.
Il pittore riceve fama e onore per il suo operato. La bottega che gestisce a Venezia è un fondamentale punto di riferimento nell’ambito artistico lagunare, dove si formano grandi talenti quali Lorenzo Lotto, Giorgione, Tiziano e Sebastiano del Piombo.
Giovanni Bellini riesce a infondere un’intima poesia ai suoi paesaggi, dove una luce calda e diffusa modella ogni cosa, accarezza le volumetrie dei corpi e dona loro una languida dolcezza espressiva.
Mariaelena Castellano
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